Sull’indimenticabile sceneggiato di Sandro Bolchi del 1967

 

Ho appena finito di vedere su Rai Play l’ottava e ultima puntata dei PROMESSI SPOSI, lo sceneggiato del 1967 diretto da Sandro Bolchi e tratto dal romanzo di Alessandro Manzoni. Inutile dire del rigore di tale trasposizione televisiva delle pagine del capolavoro manzoniano, in quell’epoca in cui davvero la Rai era in grado di diffondere cultura (tant’è che in molti ebbero a leggere il romanzo dopo aver seguito sullo schermo le vicende di Renzo e Lucia). Io avevo dodici anni, allora, e come avrei potuto godermi nei particolari l’alta qualità di una realizzazione televisiva che ho inteso oggi, credo, in tutta la sua preziosità? A partire dall’apporto di Riccardo Bacchelli per quanto concerne la sceneggiatura, senza dimenticare la voce recitante di Giancarlo Sbragia; ad introdurre e accompagnare i momenti cruciali di una narrazione televisiva orchestrata dal grande Sandro Bolchi e sorretta dall’apporto di attori di prim’ordine, due dei quali mi hanno colpito in particolare, nello sceneggiato. Mi riferisco innanzitutto a Fosco Giachetti nel ruolo del principe padre-padrone di Gertrude, la monaca di Monza: davvero perfetto nell’esprimere un’algida autorità nei confronti della sventurata figlia. Il secondo attore da me parecchio apprezzato è stato Cesare Polacco, nei panni del conte-zio che, imbeccato dal malizioso conte Attilio, si incontra col padre provinciale dei cappuccini allo scopo di allontanare da Pescarènico fra Cristoforo, troppo ingombrante in relazione agli scellerati propositi di Don Rodrigo suo nipote. Ebbene, il colloquio fra i due alti e canuti personaggi, il conte zio e il padre provinciale, mi è sembrato quasi prodigioso nell’esprimere una sottile schermaglia fitta di allusioni, soprattutto da parte del protettore dello scellerato signorotto. Mi è piaciuto soffermarmi un attimo su questi due attori a voler tacere naturalmente degli altri, tutti all’altezza della situazione; alludendo a Lea Massari (la monaca di Monza), Massimo Girotti (fra Cristoforo), Lilla Brignone (Agnese), Luigi Vannucchi (don Rodrigo), Salvo Randone (l’Innominato); senza trascurare  Paola Pitagora (Lucia) e  un ottimo Nino Castelnuovo (Renzo). Ma un cenno a parte intendo riservarlo in ultimo a Tino Carraro nelle vesti dell’immortale Don Abbondio. Consapevole di scoprire l’acqua calda per la scelta dell’aggettivo a proposito dell’antieroe manzoniano come non parlare, mi chiedo, del momento sommamente comico in cui il nostro povero curato inveisce contro la mula -colpevole di spingersi avventatamente sul ciglio del sentiero- mula che gli sta facendo attraversare una strada ancora minacciosa per la fin troppo fresca e incredibile conversione dell’Innominato (signore di quel castello che dall’alto incombe sulla testa di Don Abbondio)? Ebbene Tino Carraro l’ho trovato più che perfetto nell’esprimere la neghittosità del curato non certamente cuor di leone, il suo incessante brontolio che antepone la pelle a tutto il resto. Ma non potrei concludere questo mio breve scritto senza aver evidenziato quanto riferisce Pier Paolo Pasolini nel suo intervento del 26 agosto 1973 per rubrica di critica letteraria tenuta sul settimanale “Tempo” e ora leggibile in PASOLINI, DESCRIZIONI DI DESCRIZIONI, Garzanti.  Essendo stati interpellati (in quel tempo) -come riferisce il grande scrittore e regista- diversi parlamentari circa le loro preferenze a proposito dei personaggi del capolavoro manzoniano, ecco la riflessione pasoliniana in merito alla scelta di Andreotti: “La sincerità individuale con cui un bambino fa le sue scelte in un contesto insincero –in quanto ortodosso, conformista, moralistico- è il vero pericolo. Se veramente Andreotti credesse con meno sincerità alla santità del Borromeo, sarebbe, come uomo di potere, meno pericoloso e più abile di quel che voglia la sua fama. Purtroppo, il potere non è mai completamente cinico: esso è sempre contaminato da forme (sincere!) di fanatismo. Soprattutto, poi, il cosiddetto cinismo cattolico”. Sì, Pasolini dava veramente fastidio ai potenti, negli ultimi suoi anni in modo insopportabile, e almeno questo non è un mistero.

 

Andrea Mariotti

 

 

3 commenti su “Sull’indimenticabile sceneggiato di Sandro Bolchi del 1967

  1. Fiorella D'Ambrosio Autore articolo

    Ricordo bene la trasposizione televisiva (1967) del romanzo “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni, uno degli sceneggiati più seguiti e di maggior successo in quegli anni in cui “la Rai era in grado di diffondere cultura”, come giustamente affermi, Andrea. E ricordo bene anche la miniserie televisiva in 5 parti del 1989, tratta sempre dall’opera manzoniana, meno fedele della precedente al testo definitivo de “I promessi sposi” e più aderente alla prima stesura del romanzo, il “Fermo e Lucia”, sia nel linguaggio, sia nello svolgimento degli eventi relativi alla storia e alla vita italiana del 600 (cast artistico di indubbio spessore anche in questo serial, dal regista Salvatore Nocita agli attori Danny Quinn, Delphine Forest, Burt Lancaster, Franco Nero, Dario Fo, Alberto Sordi, Valentina Cortese). Ma ciò’ che oggi mi preme sottolineare è il significato più profondo dell’opera manzoniana: l’autore rappresenta -in una visione pessimistica- l’eterna vicenda della vita in cui prevalgono ingiustizie e dolori, ma al tempo stesso indica agli uomini una possibilità di riscatto: “di fronte al male non bisogna cedere, ma resistere e lottare fiduciosi nell’aiuto della Provvidenza”. E oggi, più che mai, questo messaggio deve sostenerci per trovare la forza di affrontare le presenti, dure prove della vita con la luce della speranza e nella fede in Dio.

  2. marzia spinelli

    Ringrazio Andrea per aver rievocato il celebre sceneggiato di Bolchi del lontano 1967, ero allora bambina e ne ricordo ancora alcune parti che maggiormente mi colpirono. Splendida trasposizione con attori di teatro straordinari, per un romanzo straordinario che va, andrebbe riletto più volte nel corso della vita per coglierne aspetti e particolari precedentemente sfuggiti.
    In questa sentita e briosa rievocazione da parte di Andrea, trovo perfetta la citazione di Pasolini il quale come sempre vedeva molto più in là…
    Un caro saluto
    Marzia

  3. andreamariotti Autore articolo

    Un caro saluto a te, Marzia

    Andrea

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