Questa pagina è dedicata alle mie riflessioni sul lavoro dei poeti che sto conoscendo ultimamente di persona. E mi piace cominciare da Sandro Angelucci (Rieti, 1957, città dove vive e insegna). Sandro è poeta e critico letterario, saggista; personalità artistica di rilievo che recentemente ha pubblicato una silloge, VERTICALITA’, sulla quale ho scritto quanto segue:
Confesso di avere avuto come una crisi di “rigetto”, nei riguardi della poesia di Sandro, dopo un primo contatto di viva aderenza ad essa. Di mezzo, ne sono certo, la mia formazione leopardiana, che si potrebbe efficacemente sintetizzare ricordando un passo critico di un grande che di Leopardi se ne intendeva, ossia Ungaretti, laddove afferma: “Ma là dove l’ironia del poeta giunge sino al suo punto di humour nero estremo, è nel canto L’INFINITO. L’infinito non può essere noto all’uomo, essere finito, che a mezzo di oggetti finiti: cose la cui vista ci è esclusa non foss’altro che da una semplice siepe, possono diventare “interminati spazi”; similmente l’eterno, il tempo abolito, non potrà concepirsi che a seguito d’uno stormire di foglie in corso di smarrirsi dentro uno spazio, divenuto per causa di quel chiasso smarrito, senza più fine: chiasso che darà vita all’immagine del nostro pensiero fermatosi ad inseguire, a perdita di vista, gli innumeri secoli morti precedenti il nostro…”. Così il poeta dell’ ALLEGRIA, sulla “malizia volteriana” del Recanatese. Voglio dire, ancora più strettamente, che per me rimane indimenticabile la lezione leopardiana di una poesia modernamente in bilico tra il finito e l’infinito; ma non fino al punto di precludermi il godimento della buona poesia odierna, qualora essa mi venga incontro. Nella fattispecie, la poesia di Sandro Angelucci, così come mi è accaduto di leggerla e meditarla grazie al suo ultimo libro, VERTICALITA’. Ora, la “crisi” cui alludevo all’inizio, in sostanza la mia percezione di una eccessiva disinvoltura da parte di Sandro a librarsi sopra le umane miserie, ha ceduto il passo, nella mia fruizione critica, al monito di Robert Schumann; quello in base al quale non basta rielaborare nel proprio spirito; dovendo noi spingerci a rielaborare l’opera d’arte nello spirito del suo autore. Maggiormente aperto alla poesia di VERTICALITA’, a questo punto, mi sono reso conto della sua “sana e robusta costituzione”; di più: del suo baricentro basso, alla Maradona, ideale quindi per “dribblare” i mille ostacoli che mettono a prova la buona poesia. Ebbene, qual è la “finta” vincente di Sandro Angelucci, che lo fa arrivare col pallone in porta? Un lessico accortamente quotidiano, non ingenuamente adorante quel cielo poeticamente scalato (anzi, non omettendo talvolta di ringhiare come un mastino, salendo di quota); e, inoltre, finissime assonanze in funzione di false-rime, laddove quelle ortodosse avrebbero reso sprovveduto come quello di Icaro il volo della poesia. Senza voler diventare accademici, converrà insistere sulla scelta da parte dell’autore di un piano fortemente denotativo del suo discorso poetico, anziché boriosamente connotativo; in quanto Sandro Angelucci, come ogni buon poeta, lavora la lingua, non lasciandola allo stato inerziale, piuttosto piegandola, con forza aggraziata, alle ragioni della sua inclinazione ad un volo poetico non banale; direi preciso, a questo punto. Non confondibile, tanto per esser chiari, coi gorgheggi delle “anime belle” che troppo s’illuminano d’immenso senza comprendere che la poesia rimane intelligenza concreta della realtà, come insegna la maturità di ogni degna esperienza artistica. Ché al fondo, ripensando alla scelta stilistica a mio avviso “denotativa” di Sandro, questo si potrebbe aggiungere; cioè la sottile vibrazione dei piani culturali del discorso poetico, in VERTICALITA’: castamente centrifugati per il godimento del buon lettore non in vena di facili evasioni. Dimostra, Sandro Angelucci, la sua cognizione della forza di gravità grazie alla quale si può volare; ed io per questo lo ringrazio, per le celesti vie senza retorica che ci ha raccontato nel suo libro; non penalizzandoci con un libretto d’opera, insomma.
(Andrea Mariotti, febbraio 2010)
Sandro Angelucci, Verticalità, Book Editore, 2009.
N.B. Il libro di Sandro Angelucci è risultato primo al Premio Internazionale “Don Luigi di Liegro”, IV ed. (cerimonia di premiazione prevista per sabato 9 Ottobre 2010 in Roma, a Palazzo Valentini, sede della Provincia). Non possiamo che rallegrarci vivamente con l’autore: congratulazioni, Sandro!
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Il poeta di cui adesso mi occuperò è il piemontese d’adozione Roberto Mestrone (Udine, 1946), da me conosciuto in occasione della premiazione della primavera scorsa al V Concorso Nazionale di Poesia e Narrativa “Voci 2010” in Mestre. Avendo ricevuto in dono la sua silloge pubblicata quest’anno, ecco qui di seguito quanto ho scritto su di lui:
Un respiro leopardiano ho creduto di percepire nel leggere la silloge di Roberto Mestrone Tra l’ali di un sonetto. Così esordendo, corre l’obbligo di spiegarsi subito con rigore. Ebbene, a parte la lunga consuetudine col grande Recanatese, chi scrive ha avuto la fortuna di seguire spesso negli anni Novanta l’indimenticato attore Achille Millo, presso il Teatro dell’Orologio, in Roma. In tale piccolo ma suggestivo spazio, Millo improvvisava degli excursus sul “respiro della poesia” (già dal 1965 si era affermato come lettore di Dante). Insisteva, l’attore napoletano, sul ritmo di un buon endecasillabo; ritmo col quale dovremmo per l’appunto immedesimarci, fino a “respirarlo”: con le conseguenti suggestioni del caso, in termini di dilatazione quasi magica della poesia, imprigionata com’è nella carta stampata, ma sempre sul punto di ri-farsi viva, grazie all’ausilio del lettore disposto a mettere in gioco i propri polmoni, per essa. Ora, tornando a Roberto Mestrone, e nella fattispecie al sonetto cui dobbiamo il titolo della sua raccolta poetica (composizione vincitrice per la sez.”poesia inedita” alla IV ed. del Concorso I.P.L.A.C. di Mestre, 2009), possiamo a mio avviso verificare facilmente -nel contesto sopra delineato- la capacità polmonare dell’autore; che afferma, infatti, con grande nitore formale: “mi vesto da cantore,/ e illuso con chimere l’intelletto,/ do voce a un modo nobile e perfetto.” (terzina conclusiva del citato sonetto “caudato”). Facendoci amabilmente entrare nella propria bottega di artigiano dei versi, ecco che Mestrone ci mostra altresì con consapevolezza la sua adesione profonda alla grande poetica leopardiana, per la quale la dolcezza del canto è quanto l’uomo può opporre al male universale. Credendo di aver così chiarito il senso di quel “respiro leopardiano” di cui ho parlato all’inizio a proposito della poesia di Roberto, converrà a questo punto affidarsi ad una osservazione strettamente stilistica, per ribadire come il canto di questo nostro poeta respiri non diversamente da un organismo vivente:”…dove iniziano i sentieri/ di fragili illusioni sgangherate/ appese al mio aquilone che ora giace” (versi espunti dal sonetto L’ultima estate). Non può sfuggirci, nella fattispecie, un modo di far poesia quanto mai fluido, senza attrito, laddove -se prestiamo attenzione- la virgola presupposta dalla parola “sgangherate”, viene poeticamente liquidata da un enjambement davvero felice, nel suo spezzare il vincolo sintattico sgangherate-appese. Da questo punto di vista, lo dico per inciso, Roberto Mestrone molto avrebbe da insegnare oggi ai troppi lanzichenecchi che, ignorando completamente dove possa essere di casa la Bellezza, si improvvisano “poeti”; trascurando il ritmo, il decoro, il nitore del verso (quando va bene, cioè senza strafalcioni linguistico-sintattici annessi): il lavoro del poeta, insomma. Se un invito si può fare a Mestrone, è quello di non abbandonarsi a un virtuosismo talvolta eccessivo, scoperto: dovendo, a parer mio, un poeta dotato come lui, scardinare in qualche modo le dorate porte delle proprie certezze formali; a vantaggio di più impetuosi venti semantici. Ma è, il nostro, naturalmente, l’atteggiamento di chi non è mai contento: sto ripensando, proprio in conclusione del mio scritto, alla “anacreontica” La stazione dell’amore (in settenari), in merito agli “amori veri” nei quali, col tempo, inevitabilmente si estingue la passione. Ebbene, sentite cosa scrive Mestrone: “l’impeto i corpi frenano/come alla meta il treno,/poi giunge Tenerezza/ a mitigar gli ardori/ lambendo, come brezza,/ quei fortunati amori”. Leggendo questi versi di classica purezza, davvero sentiamo di non poter fare a meno di un cantore come Roberto, capace di trasfigurare le stagioni della vita in modo mirabile e lieve. Sia lode dunque a quest’orafo del verso, in tempi come gli attuali esageratamente volgari e ridanciani.
(Andrea Mariotti, settembre 2010)
Roberto Mestrone, Tra l’ali di un sonetto, Casa editrice Menna-Avellino, 2010.