Un poeta attraversa il mondo e il tempo, in modo del tutto diverso rispetto agli altri individui, perché segue un tracciato unico che solo la lente straordinaria della sua poesia può fargli rilevare e come è unico il suo cammino, così è unico e originale il suo rapporto con le cose e con la natura.

Ci convince di questo la nuova silloge di Andrea Mariotti, La tempra dell’autunno, che subito ci immette in un percorso singolare, fatto di momenti di contemplazione e di riflessione, in una condizione di perenne incanto e di godimento della solitudine, quasi stato di grazia necessario per il canto poetico.

Schivo e riservato nel manifestare i suoi sentimenti, Mariotti trova una misura cantabile, nei versi, adoperando la metrica con una sobrietà che perviene al lettore in forma di chiarezza solare e gli comunica sensazioni, suggestioni ed emozioni.

Abbiamo di fronte un escursionista appassionato della montagna, sempre alla ricerca di valichi e valli che lo conducano verso le cime amate, anche solo per guardare il panorama e rimanere sospeso tra terra e cielo, rapito dall’immensità e dal silenzio.

Ed è allora che la parola poetica diviene lo strumento primario per svelare i segreti e il mistero dell’universo, configurandosi come ineguagliabile chiave d’accesso per andare al di là della banale realtà quotidiana.

La prima cosa che colpisce in questa raccolta sono gli spazi, dilatati e ampi, mai astratti, ben definiti e legati a precisi territori, di città o regioni: dinnanzi ai nostri occhi si stendono vallate, si ergono monti, si spalancano orizzonti e si effonde ovunque una luce intensa che non è semplicemente luce del giorno e delle sue ore ma luce spirituale, che emana dall’interiorità del poeta.

Già nella poesia che fa da vestibolo alla silloge, Fondovalle, si può cogliere lo stato d’animo dell’uomo che ammira “le cime candide d’Abruzzo”, sentendosi quasi purificato “dai venti tiepidi di cresta”, che scacciano “il tossico dal sangue” e avverte quindi la forte necessità di immergersi nella natura per un lavacro dell’anima intossicata dalla vita e dalla società. Questo muoversi tra la purezza sublime del paesaggio e le tragedie dolorose dell’esistenza sarà la costante di tutto il libro, nel tentativo continuo di compiere una ricerca del bene e ridare una definizione del mondo. Assistiamo ad un viaggio lento, segnato da incontri, da ricordi, da memorie ma anche dall’alternarsi delle stagioni, tra le quali Mariotti sembra prediligere l’autunno.

Le tappe, o meglio le fasi del viaggio, sono cadenzate dalle quattro sezioni della silloge (Poesie ritrovate, Sciolti, Apollo e Dioniso, Intrecci) attraverso le quali si articola un itinerario di rilettura della realtà e di analisi su se stesso, che nella poesia di Mariotti, coincidono sempre.

Nella prima sezione ci appare il viaggiatore “insonne” (per dirla con Penna), che si sposta in luoghi non soltanto fisici ma della mente, attento alla stagione, al vento, elemento assai frequente nella poesia di questo libro, alle memorie di un tempo passato (come il ricordo di una visita fatta ad uno caro zio malato). Riconosciamo in lui un pellegrino di stampo quasi proustiano che, comunque proceda, a piedi o in treno, o in taxi, torna indietro per capire meglio i momenti vissuti, forse dimenticati, che invece egli recupera per mezzo di poesie ora ritrovate. In tale recupero, però, non scorgiamo mai atteggiamenti malinconici o patetici rimpianti, perché un filo di ironia guida l’esplorazione del passato e conduce il poeta ad una liberazione da ogni senso di colpa, ristabilendo una linea di conciliazione tra ieri e oggi. Si tratta di un’ironia che a volte ci ricorda Caproni, pronto ad esorcizzare i drammi dell’esistenza con qualche battuta, senza nulla togliere alla serietà e gravità di certi istanti.

Si consideri per esempio l’incipit di Treno per Cesano, così isolato nella sua descrizione di maestosa bellezza (Dell’umana sofferenza fortezza/ che impettita stai sulla collina) e si noti poi il contrasto con il ricordo sorridente di un incontro con lo zio devoto a Bacco e fumatore.

E ancora si osservi nello Scirocco d’Assisi lo stacco tra l’inizio ritmico e austero (Forte soffia carico di bile/nel giorno di Natale questo/ vento bastardo…) e la conclusione ironica e sarcastica, allusiva al prezzo del taxi (come punge/ nel di festivo Pietro di Bernardone). Segue la seconda sezione tutta giocata sulla perfezione degli endecasillabi sciolti, che il poeta costruisce con grande abilità, essendo un profondo conoscitore della metrica e un infaticabile lettore dei classici della nostra tradizione letteraria. Apre la serie l’imponente Latemar, contemplato dal viandante che ne coglie il rossore di suprema bellezza, mentre ne percorre l’Alta Via, quasi in una metafora della vita e del suo cammino, per raggiungere una conca di mistico e detritico silenzio, simile ad una scenografia lunare.

Tutto in questi sciolti è occasionale ed estemporaneo, eppure ogni motivo si dipana secondo un tema unitario e continuo, che ruota intorno all’itinerario del poeta e alla sua formazione umana, perenne work in progress. Così è nella lirica Futuro, così in Gianicolo, in cui la luce fulgida e irreale che inonda i versi, è la condizione ideale per quello stato d’animo che guida i due visitatori al sepolcro del Tasso, nel ricordo dell’emozione intensa provata anche dal Leopardi, così avviene in tutte le altre poesie.

Non manca inoltre qualche elemento simbolico, di cui il poeta si avvale per disegnare il suo percorso e costruirlo passo per passo; uno di questi emblemi è lo Zaino (titolo anche di una poesia), che ci ricorda molto la bisaccia con cui Rabindranath Tagore attraversava la sua giungla indiana, una bisaccia metaforica, piena di risorse spirituali e mentali per affrontare la vita.

La sorpresa per noi è che nel verde zaino d’escursionista, insieme al quale l’autore dice di aver palpitato dinnanzi a vette sublimi, è nascosta una rosa destinata ad una donna amata, le cui fattezze sono accennate con accenti delicati e teneri, d’un lieve erotismo pudico. Questa figura femminile appare in alcune composizioni, vaga e indeterminata ma fortemente sentita: a volte è solo compagna di strada del poeta (come in Gianicolo) e se ne avverte la presenza da un improvviso plurale che scivola nei versi (i nostri occhi), o dalla allusione ad un tu ( poi di nuovo all’aperto tu ed io) che si affianca all’io in una condivisione di sentimenti; altre volte è la donna dal cuore ardente che gli vuole bene e riesce a fargli compiere persino scelte di luoghi meno cari, il mare invece delle montagna, (in Estate), altre volte ancora è solo un’amica cara che intravediamo durante una conversazione su Cracovia, Gerusalemme e Montale (nella lirica appunto intitolata Montale), in un balenare di pochi tratti essenziali (si levano le fiamme dal tuo volto).

Certo non è la donna di montaliana memoria che ci viene in mente, perché questa non ha la stessa funzione salvifica di quella, ma pur nelle rare occasioni in cui la incontriamo, sentiamo che si è aperta una breccia nel cuore del poeta e l’uomo non è più un solitario viandante.

L’attenzione di Mariotti, però, oltre che dalle vette, dai cammini, dai pellegrinaggi, con o senza la fedele compagna, è attratta anche dai problemi sociali, dalla cattiveria che ci circonda, dalla stupidità di quella che egli chiama ormai l’umanità perduta: l’incendio doloso della pineta di Castelfusano, il crollo del ponte Morandi di Genova, la folla dei giovani dalle teste chine sui tablet e sugli smartphone, come nuovi oranti, in una ineludibile dipendenza tossica da questi meccanismi, in una incapacità assoluta di comunicare col prossimo se non attraverso chat, mail e le faccine di emoticon, nella ormai incipiente afasia del linguaggio. Di fronte a questo pasticcio d’uomo privo di orizzonti, al poeta non resta che ritornare ai suoi temi prediletti: la natura, i monti, i colori delle stagioni. E a proposito di ciò, ci si offre in tutta la sua armoniosa drammaticità, la lirica La tempra dell’autunno, da cui il libro prende il titolo:

 

Tripudio di colori offrite in dono

o cittadini alberi, voi funesti

l’ottobre scorso agli uomini e alle cose;

mentre i vostri fratelli risonanti

venivano mozzati dal ciclone

nelle foreste delle Dolomiti.

Ribolle ancora il mar Mediterraneo

ignorando la tempra dell’autunno

…………………………………….

 

Sull’umanità si è scatenata la vendetta della natura, nel prevalere della tempra dell’autunno. Perché il poeta la definisce così? Che cos’è questa tempra dell’autunno, che pure è una stagione amata, che fa pensare all’età di mezzo dell’uomo, quando le furie si dovrebbero placare e lo spirito dovrebbe prepararsi ad accogliere con serenità l’inverno? “Tempra” è termine che riferito ad un uomo significa il complesso delle sue qualità fisiche e psichiche, con riferimento in particolare ad una costituzione salda e forte, ma vuol dire anche indole, temperamento. Si pensi ai versi del Petrarca in Solo e pensoso: sì ch’io mi credo omai che monti e piagge/ e fiumi e selve sappian di che tempre/ sia la mia vita ch’è celata altrui.

Riferito ad una stagione che cosa può voler dire? Allude certamente alle caratteristiche di clima, di aspetti, di caratteri e di forza della natura che l’autunno implica. Trasferito in termine poetici qui il vocabolo assume una valenza metaforica, che diviene uno specimen per l’uomo, giunto tranquillo e finalmente intero, ad una precisa tappa della sua esistenza, l’età matura dei resoconti, delle decisioni, dell’ordine nelle proprie stanze, per essere finalmente se stessi e capire il proprio ruolo. Questo è il messaggio che La tempra dell’autunno trasmette, a chi lo vuole e lo sa cogliere.

La penultima sezione del libro, Apollo e Dioniso, già dal titolo annuncia un colpo d’ala, che a suon di rime incrociate, tipiche delle quartine, con non poche sfumature ironiche, oppone l’apollineo al dionisiaco, in una serie di contrastanti battute, che scaturiscono da riflessioni e considerazioni, su vari aspetti e momenti dell’esistenza.

Ad un cielo color cobalto può opporsi un cuore in anemia, le due anime dell’arte si contrappongono e si fondono, la poesia tenta di ricomporre l’unità tra il caos e l’ordine, tra l’irrazionale e il razionale e conduce alla gioia del divenire, all’interno della quale si trova anche il piacere di distruggere. L’efficacia di queste quartine sta soprattutto nella loro brevità e nell’aspirazione costante al raggiungimento di un’armonia, non solo compositiva e metrica, bensì spirituale e naturale.

Chiude la silloge, la sezione Intrecci nella quale si intrecciano situazioni e occasioni con luoghi e tempi precisi. Le occasioni (ancora una volta pensiamo a Montale) sono date da visite che il nostro viaggiatore realizza in determinati luoghi, per ammirare delle notissime opere d’arte e che immediatamente creano una situazione emotiva intensa: c’è Napoli, c’è Firenze, c’è Roma e c’è l’amata montagna. Il poeta si sofferma reverente dinnanzi alla scultura delle Tre Grazie di Canova, estatico e in religioso silenzio davanti al manoscritto autografo dell’Infinito di Leopardi, stupefatto e rapito nella chiesa di Sant’Isidoro a Roma contemplando le Virtù del Bernini, perfezione inimitabile in contrasto col grande degrado della città al di fuori di quel luogo sacrale. Sullo stesso piano di tali capolavori artistici, è posto l’abruzzese Monte Amaro e il parco nazionale circostante, la cui sublime quiete invade l’animo dell’uomo. Infine a Firenze è la sosta conclusiva nel cimitero di San Felice ad Ema presso la tomba di Montale: qui avvertiamo lo stupore e la commozione di Mariotti per la modestia e l’umiltà di quella sepoltura, nonché la condivisione con il rifiuto di ogni retorica che l’amato poeta, premio Nobel, ha sempre fatto durante la sua vita.

Due poesie dedicate ai tempi, a due mesi, settembre e ottobre chiudono definitivamente la raccolta: Settembre e Sonetto ottobrino.

Il poeta è ormai pacificato con se stesso, sa godere dei colori settembrini, sbiaditi forse, ma adatti a riabituare l’anima ad una luce più avara dopo l’iride di agosto. Il sonetto di ottobre è invece una dichiarazione di amore alla compagna, un’ode al suo sorriso e alla pace che ne deriva, una constatazione di come lei finalmente sia riuscita a placare i fantasmi di lui. Il palpito autunnale che conclude la lirica ristabilisce il circuito di tutta la silloge, intorno ad un viaggio iniziato come ricerca del bello e della purezza, per giungere ad una meta di serenità e di pace, grazie all’utilizzo di un linguaggio poetico la cui nota distintiva è la musicalità. Non poteva essere diversamente per un poeta come Mariotti che ha in Mozart il suo nume tutelare.

 

ANNA MARIA VANALESTI (prefazione alla raccolta)

 


 

LAVORO I VERSI NELLA MIA OFFICINA

 

 

Questo verso di Andrea Mariotti è tratto dall’undicesima quartina della sezione intitolata Apollo e Diòniso. Mi piace iniziare il viaggio nella poetica di questo autore con questi termini perché ben esprimono ciò che la poesia significa per lui.

Immagino il poeta lontano dal clamore della vita, da quel rumore di sottofondo di cui parla Pietro Citati in Elogio del pomodoro, chino sulle sudate carte, assorto nel suo silenzio fondo, estraneo a futile vetrina, chiuso in una stanza inondata e animata dalla musica di Mozart (d’altronde citato nella sesta quartina), Beethoven (magari il Chiaro di luna?) o Haydn, suoi amatissimi compagni di vita. Già, Vulcano, lontano dall’Olimpo, isolato nel suo buio antro, lancia lapilli, forgia le folgori per Giove (come ce lo raffigura Rubens in un celebre dipinto del XVII secolo), così come Andrea Mariotti intaglia versi, parole, rime, con feroce costanza, con ininterrotta caparbietà finché quel verso, quella parola, quella rima non siano giunti alla perfezione. Lavoro solitario, da cesellatore esperto, da accanito amante del puntiglio e della precisione da compiere in quella officina della parola e della creatività, quell’esaltazione della parola poetica e delle sue potenzialità di dannunziana memoria. Vulcano e il poeta, uniti, costruttori, domatori di metalli col fuoco, artefici per eccellenza di doni splendidi per noi lettori.

La poesia di Andrea Mariotti è ricca di temi, sfumature e offre a chi legge un corposo insieme di meditazioni e riflessioni.

Il tema fondamentale della sezione è lo stretto rapporto tra forma e contenuto: è il motivo uniformante di queste composizioni. Nelle quartine, il poeta sperimenta l’ebbrezza della rima che rende musicali i versi: vengono in mente le parole di Paul Verlaine, Musica e sempre musica ancora! (Paul Verlaine, Poesie, BUR, 1999, p. 229). Ma non solo. La forma si fa sostanza. Anche se c’è la metrica della tradizione, si nota anche sempre un profondo lavoro sul lessico, sulle metafore: l’esercizio stilistico è la sostanza stessa dello scrivere.

Per quartina si intende una strofa di quattro versi, la più ricorrente nella poesia italiana; è formata di quattro endecasillabi (ABAB e ABBA). Concorre, in coppia, a formare lo schema della prima parte del sonetto (due quartine + due terzine). Ma la parola quartina esiste anche in campo musicale (ecco che ritorna la passione di Andrea Mariotti per questa somma arte) ed indica due duine riunite in un unico gruppo. Essa è la divisione doppia e binaria di una figura di nota puntata. Si indica ponendo sopra al gruppo ritmico considerato la cifra 4.

Per Andrea Mariotti la rima non è una prigione, un vincolo avulso dal contenuto, una costrizione, anzi si conforma ad esso e con esso forma un tutt’uno. Musica e poesia, poesia e musica indissolubilmente legate ci riportano alle origini della poesia stessa e alla sua naturale cadenza musicale: Per trobar si deve intendere non soltanto “comporre poesie”, ma anche “comporre musica”: i trovatori, infatti, non creano solo il testo, ma “inventano” anche la melodia (Ulrich Molk, La lirica dei trovatori, il Mulino, 1986, p. 51).

Dice Stefano Zecchi nel suo brillante saggio intitolato L’artista armato, edito da Mondadori nel 1999, a pagina 30: La forma è un’unità conoscibile; dove non c’è forma non c’è unità conoscibile, ma solo un vuoto movimento di sensazioni e percezioni che non sintetizzano un senso. L’arte senza forma è questo nulla di senso.

Ma, analizzandoli, ci accorgiamo della ricchezza di risorse ritmiche, di abilità sonore e lessicali dei bei versi di Mariotti.

Nella prima quartina, per esempio, si osservi il ripetersi ravvicinato di due verbi riflessivi: dannarsiaffidarsi…e l’insistente rincorrersi di consonanti quali la “n” e la “m” (daNNarsi, aNiMa, uN, aMore, seNza, argoMeNti, veNti, coMe, ecc). Proviamo a leggere ad alta voce: ne ricaveremo un senso musicale di profonda risonanza interiore. Il poeta riflette, considera, parla con se stesso accompagnato da un sottofondo che è quasi una NeNia soMMessa, una caNtileNa ripetitiva.

Si considerino gli avvii di alcune quartine, d’un tratto (II), per esempio, oppure oh (III), altrove perché (I): sembra che il poeta, dopo aver a lungo silenziosamente aderito ad un colloquio con se stesso, termini il suo ragionare ad alta voce come a volerlo condividere con il lettore.

Il lessico è talvolta fantasioso: per esempio, lupesco fratello (IV). Bellissima immagine, vivace accostamento! Il fratello, l’essere umano, è affiancato ad un animale, il lupo, e ne è assimilato, assumendone le caratteristiche!

         Apollo e Dioniso è il titolo della terza sezione dell’intera raccolta e infatti queste due figure mitologiche ne sono protagoniste. Apollo, dio della luce (luce sfolgorante come nimbo! – IX), nel senso più elevato della parola come immagine di ciò che è puro, lucente, elevato e sublime: Andrea Mariotti va continuamente a caccia di bellezza. Ma non dimentichiamo che Apollo è anche inventore della musica…Dioniso, dio dell’esaltazione dei sensi, del vino e dell’allegria: il rosso, non è poco, l’ho trovato: / a tavola si spande con gran fiato / di marasche dal rovere vaniglia / serbando…evviva l’aulica bottiglia! (X). Dice Giuseppe Conte nelle sue riflessioni sul mito (Il passaggio di Ermes, Ponte delle Grazie, 1999, p. 18) che i miti adombrano tutti una verità, la verità della ricerca eterna del senso delle cose, dell’universo, del mistero inesauribile della vita.

Anche l’amore è oggetto di pensieri profondi: la donna non è mai descritta fisicamente. Quando Andrea Mariotti parla d’amore allude sempre ad un dolcissimo sentire, un ragionar d’amore, anche in questo caso si tratta di una riflessione pacata, sulla durata di questo sentimento, i suoi argomenti, la sua bellezza. È un rapporto difficile, quello con la donna, fatto di attese, rinunce, incomprensioni. Si legga l’ultima quartina: Quand’è che arriverà…(XII). Immaginiamo il momento: il crepuscolo della vita – maledetta sera – morire soli – Le forze cominciano a mancare, le energie anche, si è un po’ svogliati, depressi, si è deboli di gamba, i problemi di salute fanno capolino. Malinconia. Nostalgia. Si pensa agli amori andati, agli amori perduti: come dice Massimo Ranieri nella celebre canzone dal titolo Perdere l’amore, (…) Quando si fa sera / Quando tra i capelli / Un po’ d’argento li colora / Rischi d’impazzire / Può scoppiarti il cuore (…). Si rischia d’impazzire, sì, perché un uomo, anche se troppo solo, può avere il cuore ancora giovane, aspira ad amare e ad essere corrisposto, ma non cerca più le fiamme della passione, no, niente più guerre né tempeste né follie. Abbandonato il tempo delle conquiste, forse è tempo di una tenera guerra (per rimanere in termini canori, dice Jacques Brel in La chanson des vieux amants), di un’affinità elettiva, di un calmo amore ambasciatore / di una corrispondenza duratura in cui ci si conosce intimamente, in cui l’uno prende la mano dell’altro per andare verso l’ultima meta, in cui si affaccia ancora un po’ di mistero e si rispetta il reciproco silenzio. Un’acqua cheta, un’acqua calma. Tutto sommato, domani è un altro giorno.

Nella terza quartina il poeta afferma con risolutezza: Sì, la vista di un cielo di cobalto / dà pace…ma il cuore è comunque e sempre avido di slanciarsi verso l’alto! Ma questo alto è…altro! È l’altrove (V), l’ideale, l’elevazione spirituale che ci porta in mondi ricchi di bellezza:

 

(…)

Invólati ben lungi da questi miasmi impuri;

Sali a purificarti nell’aere superiore,

E bevi come un puro e divino liquore,

Il fuoco trasparente di quegli spazi limpidi.

(…)

 

Charles Baudelaire, Les fleurs du mal, I fiori del male, Mursia, Élévation, p. 32.

 

È l’azzurro:

 

Del sempiterno azzurro la serena ironia

bella indolentemente al pari dei fiori

schiaccia il poeta impotente che impreca al suo genio

in mezzo a un deserto sterile di dolori.

(…)

 

Stéphane Mallarmé, Poesie- Poésies, 1991, Feltrinelli, L’azur, p 35.

 

L’occhio di Andrea Mariotti è attento a ciò che lo circonda, alla natura, alle stagioni e gioisce dello spettacolo della natura: la vista di un cielo di cobalto, luminoso, rasserena, dà pace, sorprende sempre, il vento pungente accompagna il solitario andare, le stelle splendono, illuminando il cammino. Ma c’è una presenza notturna che tanto stimola la fantasia del poeta: la civetta. Quella che Per la discesa cieca / leva il suo canto che non desta orrore…(VII), sì, proprio quella che era l’uccello di Atena, dea della saggezza. Una delle principali figure mitologiche (la troviamo in Africa, in America, in Asia e in Europa), uccello notturno, in relazione con la luna, non può sopportare la luce del sole: è il simbolo della saggezza, della conoscenza razionale, della riflessione che domina le tenebre (Victor Magnien, Les mystères d’Eleusis, Paris, 1950), che si oppone alla conoscenza intuitiva; ha il ruolo di protettrice. Insomma, per i Celti questo animale doveva avere sicuramente delle facoltà particolari: le civette furono anche accompagnate da streghe…Dunque, quali sono i protettori di Andrea Mariotti?

L’autunno – settembre per esempio è menzionato in altri componimenti – è una stagione amata da Andrea Mariotti: ma non si creda che si tratti di un periodo triste, monotono che non porta frutti, al contrario. Non è l’età o il tempo del tramonto, ma stagione quieta adatta alla scrittura.

In questa sezione il poeta riflette sul senso del trascorrere del tempo, il tono è lieve, ironico, scherzoso, mai drammatico: pensiamo a termini quali allegria (III) oppure lieto (VI) o ancora giocondo (XI), il Tempo regala sempre a piene mani la sua romantica fretta in giorni che corrono veloci giù per la discesa della vita. La poesia di Andrea Mariotti è permeata di moderazione, di assennata via di mezzo. Per il nostro poeta, come per Stendhal, la bellezza è data da diversi modi di essere felici, dall’espressione della dilatazione metafisica del tempo che ruba la vita e questa sezione ne è la testimonianza. Se il mito attraversa il tempo, direi che il Tempo non può essere a sua volta narrato senza mito: sono parole di Giuseppe Conte (op. cit., p. 42) a proposito del rapporto tra mito e tempo che ben si addicono al lavoro poetico di Andrea Mariotti. Continua Conte sempre a pagina 42: Si dice che il mito è ciclico, il tempo lineare: il mito è il paradigma, il ritorno, l’istantaneo e l’eternamente presente: il tempo è lo scorrere. Eppure io non credo che mito e tempo siano in contraddizione, non credo cioè alla a-temporalità del mito e alla assenza di mito nel tempo.  

La solitudine e il silenzio avvolgono l’anima del poeta. “Beata solitudo, sola beatitudo”, così ho trovato scritto sulla facciata di un maso in Trentino: soltanto separandosi dal mondo e dagli altri è possibile trovare il piacere della tranquillità dell’animo che la scrittura esige. Torniamo a ciò che ho detto all’inizio di questo mio scritto e il cerchio si chiude.

 

Fausta Genziana Le Piane

 


 

Andrea Mariotti LA TEMPRA DELL’AUTUNNO Bertoni editore, 2020

 

Il principio fondante di questo nuovo libro di Andrea Mariotti è il rigore metrico, unito alla coerenza linguistico espressiva che dona coerenza ed evidente compattezza.

Ma tale rigore metrico, assai raro di questi tempi – e pertanto cifra originale del libro – non adombra l’ispirazione poetica e il suo esito, bensì l’accompagna e la sostiene, dandole ulteriormente se vogliamo quella tempra così polisemantica del titolo. Il termine credo non si riferisca soltanto alla stagione autunnale, metafora del tempo maturo dell’uomo, o al carattere solido dell’uomo giunto a quella stagione matura, ma credo si possa riferire anche al tempo maturo e saldo della poesia, nel caso specifico frutto di un indubitabile “labor limae”.

C’è poi il linguaggio: qui si potrebbe incorrere in un rischio di cui credo l’Autore sia ben consapevole: linguaggio aulico che potrebbe essere interpretato non come elemento di valore, ma come “eccessivo” tributo alla tradizione, (vedi su tutto l’epigrafe in omaggio a Foscolo Sdegno il verso che suona e che non crea) dando una superficiale impressione di linguaggio “vetusto”. L’Autore stesso, lo dichiara ironicamente parlando di aulica bottiglia

Ma l’occhio di lettore attento e serio non potrà non cogliere il gioco delle sorprese, degli spiazzamenti, dei guizzi linguistici e perché no anche gli sperimentalismi che si presentano man mano nelle varie poesie, direi in tutte. Insomma, la struttura metrica e tutto l’impianto classico del libro, maneggiati con grande cura e sapienza, vengono poi contaminati, in senso buono s’intende, dall’inserimento di termini, immagini e fraseggio poetico segnati dallo stigma della modernità.

In concreto, si prenda ad esempio Fondovalle, la prima poesia: i primi versi descrivono il paesaggio, le ritrovate e amate cime d’Abruzzo, tutto apparentemente molto tradizionale, molto pacato; ma poi quel tossico dal sangue scompiglia quella pacatezza, anticipa quel che poi accade nel finale: come se nel giardino (o nella valle montana in tal caso) dell’Eden si fosse abbattuto un ciclone, la bellezza e l’armonia di quelle cime è sparita, sparita la tenerezza delle primule, resta il suicidio del collega e il modo orribile di parlarne in ufficio! Resta l’ agghiacciante realtà di quotidiana miseria e indifferenza, di assenza di pietà.

Ma ancora un esempio:

All’inverno mancato: l’invocazione all’inverno con l’interiezione di dolore anche aspra “ohi, verno… al secondo verso (e ce ne sono molte nel libro di invocazioni dolenti e/o aspre) seguita da … ma l’onta /ti si ascrive dei Giorni della Merla/con primaverile vampa…

È un verso classico, tradizionale, che usa un linguaggio alto

poi arriva un bel salto:

noi, per le polveri sottili, a salmodiare

intanto ad petendam pluviam giocando…

A parte l’assonanza felice di intanto e giocando, ma soprattutto quelle polveri sottili mescolate all’invocazione alla pioggia, nel richiamo latino, liturgia rituale nella migliore tradizione agreste, che rafforza l’immagine dell’antitesi tra la città e la campagna è notevole. E poi il gran finale, inaspettato e provocatorio: … ché l’emergenza è l’anima del rock!

Sempre seguendo il corso e il percorso umano e stilistico del libro che si snoda tra endecasillabi, sciolti e in rima, e quartine aspre come si conviene, segnalerei Futuro per il verso finale così perfetto Vivere voglio nel silenzio d’oro/dei libri vuoto il mondo d’ogni senso. Anche qui abilmente reso il contrasto tra il Futuro del titolo e il passato dei libri belli, ingialliti… a cui tornare e in cui trovare rifugio e calore dal sentore d’autunno

Anche il Treno per Cesano è un momento alto nel ricordo e nella descrizione dell’amato zio devoto a Bacco e fumatore, sembra quasi di vederlo mentre racconta barzellette condite con le omeriche risate che lacrime/ strappavano al nipote ombroso! …e lacrime quasi strappano i tre versi finali: e soprattutto ripenso al tuo grande/ cuore in quel lontano giorno in cui/ morì mio padre: tutti a pranzo da te.

De profundis in memoria della tragica vicenda del Morandi è una poesia molto ben riuscita, considerando l’indubbia difficoltà di trattare un tema del genere, con il rischio sempre dietro l’angolo di retorica e banalità; la poesia emoziona senza cadere nel patetico e il verso finale precipitati in un baratro tutti consente felicemente il passaggio dall’io al noi, all’universalità tanto necessaria, che solo la vera poesia è capace di rendere.

Gianicolo ed Estate sono un bel binomio di poesie d’amore che addolciscono l’animo: in particolare la prima, dove l’amore è rappresentato in un contesto più ampio, di delicata meditazione su quella luce inattesa e irreale di domenica e si manifesta nella intensa immagine finale del galleggiare uniti all’uscita della chiesa dove riposa il Tasso, l’umile marmo che solo parlò /al cuore di Leopardi raggelato, dove l’ombra della morte è per un attimo accantonata se non annullata dalla festa dell’amore – scelta felicissima del termine che rende pienamente la gioia del sentimento – di cui però non si dimentica la caducità.

Così anche Lo zaino, oggetto che nasconde e si fa rosa (!) fiore massimo d’amore, ma al tempo stesso diviene alter ego del poeta, compagno fedele di comune cammino, più lustri lui ed io palpitato abbiamo/ dinanzi a vette sublimi , meno/ belle giura, dei seni tuoi alla porta; una poesia breve, tutta in movimento, il cui veicolo è proprio quello zaino onnipresente, contenitore e custode d’amore e altro, fino alla chiusa della similitudine tra le vette e i seni che circolarmente ricollega i due temi della poesia, la passione d’amore e quella per la montagna. Ancora dalla sezione Sciolti vanno menzionate Latemar e Color del grano dove protagonista è il silenzio: nella prima l’aver percorso l’Alta Via…, quella conca/ di mistico e detritico silenzio è una sorta di onirica rinascita dove leonina forza mi hai trasfuso…/io di colpo atterrato sulla luna; similmente nella seconda il tono sarcastico, tra le cornacchie malefiche e il piccolo gheppio, si inserisce in una atmosfera lieve, come di sogno per evidenziare nei due versi finali l’impossibilità di dire il silenzio, tuttavia liberatorio dal caos del mondo: Come dirti, lettore, dell’astrale/silenzio che mi regna ancora in cuore?

Poi arrivano le quartine. E qui si entra in un campo più complesso, pur nella chiarezza del dettato, perché è la parte più profonda e intima del libro, direi il suo cuore. Tra queste incisive, allusive e profetiche metafore, un po’ aspre e un po’ dolenti, si nasconde forse l’autoritratto, o più di uno, del Poeta e la sua più intima verità; in particolare l’ XI si rivela una dichiarazione di poetica: ognora avverto nel silenzio fondo/un colpo d’ala che mi fa giocondo:/estraneo io a futile vetrina/lavoro i versi nella mia officina; o la XII, ancora più bella a mio modesto avviso: quand’è che arriverà quel calmo amore/non debole di gambe e ambasciatore/di una corrispondenza duratura?/ morire soli adesso fa paura.

Anche il Tempo fa la sua parte, molto presente e menzionato tramite quel ricorrente erano decenninon più vederti da un decennio… a lungo ti ho ignorato per decenni, non rivederti da un decennioera più di un decennio… come a voler evidenziarne la valenza, non soltanto personale, riferita a un decennio ricco di avvenimenti anche tragici. Più esplicito e specifico il riferimento al Tempo ricorre anche nel rievocare stagioni e mesi, in particolare nella splendida SETTEMBRE, mese di passaggio dall’estate all’autunno, con la sua luce avara a noi fraterno/ come la morte. O nel disincanto lieve e molto poetico della quartina VII: al Tempo piace andare a tavoletta… per la discesa cieca una civetta/ leva il suo canto che non desta orrore.

Infine, il sonetto dedicato ad ottobre e non solo, che oltre ad essere preciso e godibilissimo nella scelta dei termini e delle rime, non poteva trovare migliore collocazione se non come esclusivo finale, poiché chiude il cerchio alla Tempra del titolo che volente o no, ha palpito dolce, a conferma della compattezza e dell’uniformità di cui accennato in premessa e della Poesia, che è anche gioco di incastri e rimandi mai casuali, affinché tutto torni.

 

Marzia Spinelli