Il 22 novembre 1961 è da ricordare come data della “prima” al cinema Barberini di Roma del film “Accattone”, di Pier Paolo Pasolini: prima disturbata, anche questo occorre rammentare, da una indegna e teppistica gazzarra di neofascisti. Ora, per molti, tale film d’esordio, me compreso, rimane la prova più memorabile del cosiddetto “cinema di poesia” del grande scrittore e regista. Su questo virgolettato dovuto all’autore stesso, vorrei soffermarmi un momento, a riprova di come ogni parola dei grandi artisti e intellettuali vada soppesata senza stancarsi di ritornarvi sopra. Per quanto infatti possa colpire la geniale intuizione pasoliniana di accompagnare i corpi avvinghiati nella lotta con la musica della Passione Secondo Matteo di J.S. Bach (scena famosa e indimenticabile, nel film, di riscatto quasi sacralizzato -diciamo così-, del degrado umano nelle borgate romane); è in effetti l’ultima inquadratura di “Accattone” a svelarci più sottilmente, a parer mio, l’intima necessità del connubio toccante e originale di una musica sublime con la squallida vicenda di un povero cristo balordo e ormai in punto di morte. Siamo sul marciapiede di Ponte Testaccio, col protagonista (Franco Citti) che ha battuto la testa cadendo dalla motocicletta per sfuggire all’arresto dopo un furto andato a male. Nella luce calcinante dell’estate (sto parafrasando qui una lirica di Ungaretti, “Di luglio”, trattandosi del resto di un poeta caro a Pasolini); nella luce calcinante, stavo dicendo, ecco le ultime parole dell’eroe negativo del film: “mo’ sto bene”. La cinepresa, sulle note della succitata Passione bachiana, fa intravedere allo spettatore il Monte dei Cocci segnato da una croce. Ebbene, bisogna tener presente che dal Medioevo per alcuni secoli ogni venerdì santo si svolgeva a Testaccio una solenne processione rievocativa del Calvario, a toccare la sommità di questo singolare monte. Fin troppo chiaro allora, e non dico nulla di nuovo, il sostrato cristologico del film pasoliniano in questione; con l’autore fermamente orientato, nel suo “cinema di poesia”, a cercare il Cristo fra i poveri, i reietti, come peraltro confermerà un successivo e geniale suo film breve “La ricotta”: tra censure e processi e le tante contraddizioni, artistiche ed esistenziali (non perdonate dai severi custodi di questa o quella ortodossia), del futuro saggista corsaro e luterano; la cui diversità, sotto tutti i punti di vista, ricca di forza di preveggenza, ci inchioda oggi più che mai al “genocidio culturale” in cui siamo immersi fino al collo.
Andrea Mariotti
Nel suo saggio, tra i più geniali, “Osservazioni sul piano-sequenza”, Pasolini scrive: “finché siamo vivi, manchiamo di senso” per cui ” la morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita” e “solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci”. Un misterioso senso acuito a paradosso imbeve l’esistenza di Pier Paolo Pasolini sì che il binomio vita-morte sembra non trovare compimento – nonostante l’inesausta messe di commemorazioni, approfondimenti e continue, corsare incursioni nelle dolenti note della sua esistenza – a cinquant’anni dal suo omicidio, avvenuto il 2 novembre 1975.
“Accattone” , primavera del 1961: Pasolini propone al giovane Bernardo Bertolucci, allora ragazzo e poeta, di fargli da aiuto regista. Anni dopo, in un dialogo con Lidia Ravera, Bertolucci tornerà col pensiero alla sua formazione e al potere maieutico esercitato dall’intellettuale su di lui. Nelle sue memorie, rivivrà il piano sequenza in funzione fissa, sacrale, a rammentare le pale d’altare, i paesaggi di Simone Martini, i primitivi senesi cari a Pasolini. Volti e corpi messianici , tabernacoli della gloria sottoproletaria; baracche e luci infuse a emanazione di un sole opaco, memoria aurea di antiche icone .
Un paradigma inverso si imprimerà nel cinema di Bertolucci: costante avvicinamento – allontanamento della macchina da presa, quasi a sfiorare personaggi privi dell’immersione nella luce profonda, rituale, del suo maieuta.
Nella filmografia pasoliniana regna una povertà straniante, ben oltre l’essenzialità; una sobrietà austera connessa al rifiuto di attori provenienti da formazioni teatrali. La verità melanconica dei volti richiama un mondo in via di estinzione, lascito di una società rurale tradita ma riconoscibile nei tratti dei protagonisti.
Quando Pasolini muore, Bernardo, non più ragazzo, porterà a spalla la sua bara “disperato per la perdita e perduto nel senso di colpa degli innocenti “. Per la prima volta nella sua giovinezza atea anticlericale, proverà a pregare…
Marina Petrillo
Un ringraziamento profondo per questo prezioso contributo.
Andrea Mariotti
A te, per aver ricordato Pasolini nella sacralità che mai adombra la sua inquieta essenza,
Con affetto,
Marina
Con altrettanto affetto
Andrea