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Gigi Monello, LA LUCE NEL FOSSO, Scepsi & Mattana Editori, 2007

 

Mi è accaduto recentemente di leggere i Tre racconti su Leopardi e Napoli inclusi nel suddetto libro di Gigi Monello. Ora non posso che congratularmi con l’autore per lo spessore dei suoi strumenti espressivi ben attivi nelle narrazioni in oggetto. Nel primo racconto, Il segreto del cielo di giorno, a parlare in prima persona è il dottor Mannella (che sino alla fine ebbe in cura Giacomo Leopardi) con perspicacia e forte di quello che oggi diremmo un approccio olistico nell’avvicinarsi all’illustre malato. Mannella propone un bel giorno al “Conte” di accompagnarlo a piedi fino a casa per prestargli un libro che aveva incuriosito Leopardi; essi hanno pertanto sotto gli occhi, da Capodimonte a Toledo, la visione di una plebe felicemente immersa nella sua prima ragion di vita: quella di mangiare; “pane, cocomero e cozze”, “sotto un sole accecante”, tra fogne e immondezza”; e dunque nelle condizioni ideali per favorire, come poi di fatto avvenne, l’epidemia di “cholera”. Parlavo prima dello spessore narrativo di Monello; eloquente mi sembra la seguente obiezione del Recanatese al medico nel racconto in questione: “E chi dice a voi che tra cent’anni non spunti fuori una nuova malattia, che vi ammazzi mezzo genere umano, riaprendovi la partita all’infinito? No, io non vedo alcuna ragione per escludere che l’universo sia in mano ad una forza sporca, un che di oscuro, che ami più la distruzione che l’esserci delle cose…”. Non meccanicamente, bensì con levità credo qui sottesi al suindicato passo i versi leopardiani di A SE STESSO: “…Al gener nostro il fato/ non donò che il morire. Omai disprezza/ te, la natura, il brutto/ poter che, ascoso, a comun danno impera,/ e l’infinita vanità del tutto”(12-16). Esempio rilevante, quello appena evidenziato, della sedimentazione di un ipertesto nel sostrato di una narrazione consapevole e fluida. Ma è nel secondo dei tre racconti, intitolato La strana notte del poeta, che Monello offre a parer mio il meglio di sé in questa sua immersione narrativa riferita agli ultimi anni di vita di Leopardi a Napoli. Il parlante è infatti un giornalista partito in treno da Bologna per recarsi nella città partenopea in occasione dell’ “apertura in pompa magna della Galleria, il fiore all’occhiello del risanamento, la prova provata che Napoli non era da meno di Milano”. Non è difficile naturalmente individuare nel protagonista del racconto uno schietto alter ego di Gigi Monello; qui nelle vesti di un acuto e partecipe flâneur che a Napoli coglie subito “la violenza del contrasto”, “la lotta tra pieno e vuoto”. Bello è poi in effetti questo attacco nella seconda pagina del racconto: “Ripresi allora il filo del mio discorso intimo con il luogo”; ossia col genius loci, in tutta evidenza. Ebbene, nell’ andare “a Capodimonte, la parte più alta della città” il nostro giornalista comincia a fare i conti con Leopardi, in quanto il cocchiere gli indica la casa dove aveva chiuso gli occhi il grande poeta. Da qui a poco l’incontro con “u’ prufessore Brando”, studioso di “cose napoletane” e gran conoscitore del Recanatese; personaggio ambiguo, esercitante nei confronti del protagonista una sorta di psicagogia: “Sapete che differenza c’è tra Napoli e Leopardi? Ve la dico ma voi non dimenticatela più: lui è scettico, non trova nel mondo nessun senso. Napoli pure è scettica, e glieli dà tutti i sensi, al mondo, tutti quelli possibili e immaginabili”. Il nostro giornalista dopo tale incontro è indotto più che mai a “guardare ancora Napoli”; così come  doveva aver fatto prima di lui Leopardi, anche di notte “per sentire meglio questa città che amava e detestava, per immergersi meglio in questo sonno di tutti. Chissà? Forse è proprio vero che ci attrae ciò che a parole biasimiamo”. In medio stat virtus direi, a proposito di questo secondo racconto del libro di Monello; con riferimento alla profondità dello sguardo prospettico del narratore, capace di far aleggiare lo spirito leopardiano (avvalendosi al meglio di uno strutturale passato prossimo). Con il terzo e ultimo racconto dal titolo Un americano nel golfo, ci allontaniamo a mio avviso forse troppo dal grande Recanatese; a parte la persuasiva rievocazione  della traslazione presso il Parco Virgiliano della spoglia (in corsivo per ovvi motivi) di Leopardi al tempo del regime. Rimarchevole comunque il dialogo fra l’americano Burt e l’io narrativo di nome Sante; entrambi biologi marini a Napoli alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale: “ Già, sembra questa la regola, tutto ciò che è materia deve rompersi prima o poi, e sempre per via di altra materia che gli casca addosso. E’ tutto un generale prendersi a spinte, urtarsi, farsi del male, questo universo”…; come non ripensare al riguardo allo stupendo passo dello ZIBALDONE laddove Leopardi focalizza quanto accade in un famigerato giardino (4175-77; Bologna, 22 Aprile 1826)? Complessivamente il libro di Gigi Monello –in veste editoriale fascinosamente antica– rimane un suggestivo nonché sorvegliato omaggio narrativo a Giacomo Leopardi. Di Monello, docente e viaggiatore, sarà il caso di ricordare -sempre  per Scepsi & Mattana Editori- un romanzo storico come Le conchiglie a Monte Mario (Un doppio enigma nella Roma di Pio IX), 2009; e, più recente, Il principe e il suo sicario. Come Cesare Borgia tolse dal mondo Astorre Manfredi, 2014.

 

Andrea Mariotti, gennaio 2016

 

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