Argentina

Nel giugno del 1965 Pasolini aveva conosciuto in occasione della “Prima mostra internazionale del nuovo cinema” di Pesaro il celebre semiologo Roland Barthes, come riferisce Nico Naldini nella sua Cronologia inclusa nel Tomo primo di: Pier Paolo Pasolini, TUTTE LE POESIE (Meridiano a cura di Walter Siti, Arnoldo Mondadori Editore). Rammentare ciò non mi pare trascurabile in relazione al dramma CALDERÓN del grande scrittore e regista (dramma iniziato nel 1966 e rielaborato fino al 1972). Sabato scorso presso il Teatro Argentina di Roma ho potuto finalmente assistere alla rappresentazione di tale opera pasoliniana per la regia di Federico Tiezzi. Devo subito dire di avere apprezzato la drammaturgia di Sandro Lombardi, Fabrizio Sinisi e dello stesso Tiezzi, nonché gli attori, le scene e i costumi. Ma veniamo al cuore della questione. CALDERÓN  è l’ultimo dei sei drammi scritti da Pasolini, un testo “serenamente antinaturalistico”, come osserva giustamente Fabrizio Sinisi; al punto -aggiungo io- di presentare un raffinato, complesso slittamento dei significanti verbali rispetto alle “cose” significate (ed ecco dove a parer mio -pur non avendo riscontri indiscutibili- entra in gioco la suggestione barthesiana, considerando la “spugnosità” del proteiforme e grandissimo talento di Pasolini). Però mi chiedo: quale la fruibilità per lo spettatore medio (supponiamo all’oscuro del testo) di un dramma così stratificato in cui Pasolini concentra tutto, forse troppo e troppo a lungo? passione civile, squisito gusto figurativo (alludendo in questo caso a Velásquez), dilatazione onirica, critica serrata nei confronti dell’ ”entropia borghese” alla vigilia e nello sviluppo del Sessantotto italiano…occorre in sostanza conoscere bene l’opera del grande scrittore e regista per confrontarsi con la messa in scena del CALDERÓN, questo il punto. Tant’è che da parte mia (lettore diversi anni addietro del testo in oggetto) l’altra sera ho individuato soprattutto nel XIII EPISODIO del dramma il “luogo” strategicamente più rilevante e chiaro: laddove Sandro Lombardi, nei panni di Basilio Re, allude foscamente alla “gattopardesca” strumentalizzazione dei figli rivoluzionari da parte dei padri che incarnano lo spirito borghese ben intenzionato a durare. Le date non ingannano, riguardo al “farsi” del complesso lavoro di Pasolini. Si è detto sopra di una rielaborazione del CALDERÓN  fino al 1972; ebbene, nel 1971 il poeta aveva pubblicato l’ultima sua silloge dal dantesco titolo Trasumanar e organizzar (una raccolta tuttora sottovalutata ma in realtà bellissima e significativa); all’interno della quale specialmente un ipertrofico ma indimenticabile testo, La poesia della tradizione (“Oh generazione sfortunata!”, il verso incipitario di essa) tutto spiega circa la posizione polemica, corrosivamente critica del grande scrittore e regista rispetto ai giovani sessantottini che al pensiero hanno anteposto l’azione. Pasolini poi condenserà limpidamente la critica radicale al Potere nell’ultima sua formidabile stagione di saggista, dagli Scritti corsari alle postume Lettere luterane. Una stagione talmente fertile e felice da costituire per molti, oggi, l’eredità sua forse più preziosa: sicuramente e soprattutto per i giovani che vogliano avvicinarsi all’opera di uno scrittore tuttora vittima di una vera e propria damnatio memoriae, spirito celebrativo del “quarantennale” a parte.

 

Andrea Mariotti

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