Leopardi

Con grande piacere propongo oggi ai visitatori del blog il seguente studio leopardiano (di cui avevo dato notizia il 10/6/2015 senza conoscere di persona l’autrice di esso…a.m.):

 

GIACOMO LEOPARDI: UN GENIO PREMONITORE

 

Premessa

I temi sviluppati nelle opere di Leopardi, benché noti a generazioni di studiosi, lasciano sempre sorpreso il lettore moderno, il quale spesso incontra frasi e affermazioni su temi di attualissimo interesse che precorrono le opinioni più avanzate in ordine a determinati temi del nostro tempo.

In particolare, Leopardi anticipa di almeno cinquant’anni, rispetto al suo tempo, l’analisi dei problemi dell’uomo nella società moderna e industrializzata, immaginando già allora un mondo globalizzato sempre più lontano dalla natura e una futura estinzione del genere umano per sua stessa causa. Tale concezione si pone in netto contrasto con il pensiero dominante nell’epoca, caratterizzato da un crescente ottimismo dovuto alle innovazioni tecnologiche, cosa di cui Leopardi aveva piena coscienza[1].

 

Il progresso

Nell’affrontare il tema, o meglio il mito del Progresso, Leopardi afferma: “Non abbiamo ancora esempio nelle passate età, dei progressi di un incivilimento smisurato, e di un snaturamento senza limiti. Ma se non torneremo indietro, i nostri discendenti lasceranno questo esempio ai loro posteri, se avranno posteri[2].

Sembra di leggere ciò che da più trent’anni viene evidenziato, con timore, da scienziati, ecologisti, semplici uomini di buon senso, scettici di fronte all’enfatizzazione delle “magnifiche sorti e progressive[3] da parte della cultura dominante, a causa della corsa sempre più veloce e insensata intrapresa dall’umanità con l’attuale stile di vita: l’ultima affermazione sembra richiamare alla mente

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[1] Si veda quanto riportato in Leopardi G., Palinodia al Marchese Gino Capponi in Canti, XXXII ed. Starita, Napoli 1835, riportato in Poesie di Giacomo Leopardi vol. I a cura di G. Ferretti, U.T.E.T., 1948, pag. 178 ss, v. 1-13.

[2]  Leopardi G., Zibaldone di pensieri, a cura di A. M. Moroni, vol I-II, Oscar Mondadori, 1983, p. 217.

[3] Si legga La Ginestra v. 51, in: Canti, XXXIV cit. in Poesie cit., pag.194 ss, v. 51


i continui allarmi sui danni dell’inquinamento e del surriscaldamento, dovuti principalmente all’industrializzazione.

Il Progresso, inteso già come apportatore di benefiche novità nel XIX secolo è oggetto di amara considerazione da parte di Leopardi, che nella citata Palinodia, fingendo di ritrattare una sua precedente posizione negativa, ironizza sui benefici che apporterà il progresso all’intera umanità e che già iniziavano, ai suoi tempi a modificare società e territorio: “Fortunati color che mentre io scrivo / miagolanti in su le braccia accoglie / la levatrice!” (vv. 135-137): costoro potranno godere di tutte le innovazioni e le invenzioni dovute in grazia alle macchine inventate dall’uomo “al cielo emulatrici” (vv. 49 e ss.).

Ma il progresso è in grado di aiutare l’uomo in tutto? No, anzi il progresso solo apparentemente unirà i popoli, ma non eviterà le guerre, la morte, la malattia e la vecchiaia, i disastri naturali, che affliggono l’uomo sin dalla sua comparsa nel mondo. Sicuramente le guerre non scompariranno: “(…) anzi coverte / Fien di stragi l’Europa e l’altra riva / Dell’atlantico mar, fresca nutrice / Di pura civiltà …” (vv. 61-64), e scoppieranno per motivi economici. Come non riconoscere una valenza profetica a queste parole, considerando la successione dei terribili conflitti che hanno contraddistinto il XX secolo.

Del resto, violenza, ingiustizia, diseguaglianza sociale ed economica fra le persone, “lievi reliquie” (v. 97) dei tempi passati, non potranno essere eliminate in futuro, essendo connaturate all’uomo; né la filosofia a lui contemporanea, che magnifica il Progresso e si basa sul sapere effimero che viene dai giornali (le gazzette che invaderanno il mondo) e, attualmente, da tutti i mezzi di comunicazione di massa, darà punti di riferimento certi all’uomo sul futuro.

Lo studio dell’uomo si sposterà sui temi economici che trattano dei bisogni “Del secol nostro” (Palinodia, v. 238), in modo che: ”I moderni non parlano d’altro che di commercio e di moneta. Ed è gran ragione, soggiunge qualche studente di economia politica, o allievo delle gazzette in filosofia: perché le virtù e i buoni costumi non possono stare in piedi senza il fondamento dell’industria; la quale provvedendo alle necessità giornaliere e rendendo agiato e sicuro il vivere a tutti gli ordini di persone renderà stabili le virtù, e proprie dell’universale. Molto bene. Intanto, in compagnia dell’industria, la bassezza dell’animo, la freddezza, l’egoismo, l’avarizia, la falsità e la perfidia mercantile, tutte le qualità e le passioni più depravatrici e più indegne dell’uomo incivilito, sono in vigore, e moltiplicano senza fine …” [4

 

Progresso – masse – infelicità

Leopardi rileva che soprattutto il Progresso non aiuterà l’uomo a superare il suo stato di infelicità naturale, ma lo sostituirà con una felicità di massa: la “comun felicitade” (Palinodia, v. 202) di una società lieta e felice nel suo complesso, composta, però, “di molti tristi/ e miseri tutti” (Palinodia, vv. 203-204), che annienta l’individuo in sé e gli toglie qualsiasi ambizione o responsabilità, omologandone i caratteri.  Si legge ancora nel Dialogo di Tristano e di un amico: “Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse (…). Il che vuol dire ch’è inutile che l’individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli resta più da sperare né in vigilia né in sogno. Lasci fare alle masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte d’individui, desidero e spero che me lo spieghino gl’intendenti d’individui e di masse, che oggi illuminano il mondo[5]”.

Del resto Leopardi richiama con estremo vigore il lettore a considerare “Con proprio nome il ver” (Palinodia v. 191), e riconoscere realisticamente che l’uomo nasce infelice in qualsiasi tempo: su tale stato di infelicità indagavano i filosofi antichi, mentre i pensatori moderni si affrettano a negarlo e un “… popol fanno / Lieto e felice” (Palinodia v. 204-5).

 

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[4] Leopardi G., Pensieri, XLIV, in Pensieri e detti memorabili, a cura di G. Singh, basata sull’ed. integrale diretta da Lucio Felici, Tascabili Economici Newton, 1998, Roma, pag. 54.

[5] Leopardi G., Operette Morali, ed. a cura di G. Ficara, Oscar Mondadori, 1988, Milano,  pag. 260.

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Il Consumismo e l’eterno presente

Attingiamo ancora alla Palinodia, perché il poeta descrive un altro fenomeno molto attuale: l’acquisto compulsivo di beni come strategia, più o meno cosciente, per il raggiungimento della propria soddisfazione, la “mortal felicità” (v. 109): i grandi impegni di tutti saranno comprare oggetti per il vestire o per la casa, appartamenti, il tutto di breve durata (“Di lor menstrua beltà, v. 119); la previsione che “rapido tanto / sarà, quant’altri immaginar non osa,/ il cammino, anzi il volo” (v. 123-125) per altri paesi, anche lontani, sembra richiamare ironicamente gli attuali messaggi pubblicitari delle compagnie ferroviarie ed aeree. Anche la successiva critica all’illuminazione stradale pubblica colpisce, ai nostri occhi più che i suoi contemporanei, il gusto moderno di illuminare a giorno tutti i luoghi, anche se non necessario.

In più punti della sua opera Leopardi affronta il tema dell’uomo come singolo individuo e nella società: il pensiero moderno ha distrutto le illusioni, quali erano la gloria, la fama e la religione, che avevano condizionato la vita degli antichi e contribuito nei secoli a fargli superare la sua condizione di infelicità naturale, ma non è riuscito, però, a fornire un qualcosa che potesse sostituire la mancanza di punti di riferimento stabili: tutto ciò ha reso l’uomo moderno attore di una vita vissuta in un eterno presente; oggi elemento fondamentale del vivere sembra il possedere, e in questo modo ciascuno cerca di “riempire” quest’ansia di vita. E’ il mondo dell’effimero, dei centri commerciali, della televisione, del computer e dei cellulari, dove le persone vanno alla ricerca di piaceri immediati e sempre ripetibili e rifiutano qualsiasi riflessione sulla caducità della propria condizione.

La contrapposizione tra virtù, che produce conoscenza e infelicità, e il piacere viene riproposta nell’episodio dell’oratore ateniese Stratocle, in occasione della sconfitta subita dalla città ad Amorgo: “il quale avendo persuaso il popolo (…) a sacrificare come vincitore; che poi sentito il vero della rotta si sdegnava, disse: Qual ingiuria riceveste da me, che seppi tenervi in festa, ed in gioja per ispazio di tre giorni?” (Zibaldone, 2681) [6].

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[6 Il passo citato da Leopardi si riferisce a Plutarco, Vite Parallele, Demetrio 11,3.

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Oggi politici e mainstream dell’informazione spesso fanno come lo Stratocle plutarchiano, creandosi il consenso sulle menzogne per raggiungere i propri scopi.

 

Uso e pericoli nel Progresso

Nell’Operetta intitolata La scommessa di Prometeo, nella quale si pone la questione se l’umanità sia perfetta, Leopardi si sofferma sul rapporto tra innovazione tecnologica e uso della stessa da parte dell’uomo.

Il viaggio per il mondo intrapreso dal mitico eroe insieme a Momo, il primo una sorta di ragione ottimista (si pensi che Prometeo, dal greco Προμηθεύς, significa colui che riflette prima), quest’ultimo, dio della maldicenza e del biasimo (una sorta di intelligenza critica), per verificare la scommessa fatta sull’uomo, si interrompe bruscamente allorché i due celesti si rendono conto che il fuoco, donato agli uomini, da questi ultimi viene usato contro loro stessi; il viaggio parte dal mondo selvaggio e fantasioso dei cannibali americani, che cuociono e mangiano i loro stessi figli e fa tappa nell’India dove i due assistono al sacrificio di una vedova sulla pira del marito morto.

Momo prende in giro Prometeo, che in questo sembra la figura del fratello maldestro, Epimeteo (colui che riflette dopo): “avresti tu pensato quando rubavi con tuo grandissimo pericolo il fuoco dal cielo per comunicarlo agli uomini, che questi se ne prevarrebbero, quali per cuocersi l’un l’altro nelle pignatte, quali per abbruciarsi spontaneamente?

L’ottimismo non abbandona, però, l’eroe che rinnova la sua fiducia nell’uomo e nella sua civilizzazione e ribatte: “ma considera (…) che quelli che fino a ora abbiamo veduto, sono barbari: e dai barbari non si dee far giudizio della natura degli uomini; ma bene dagl’inciviliti (…): e ho ferma opinione che tra loro vedremo e udremo cose e parole che ti parranno degne, non solamente di lode, ma di stupore.

Di quest’ultima affermazione Momo coglie l’intima contraddizione e fa notare a Prometeo che “se gli uomini sono il più perfetto genere dell’universo, come faccia di bisogno che sieno inciviliti perché non si abbrucino da se stessi, e non mangino i figliuoli propri: quando che gli altri animali sono tutti barbari, e ciò non ostante, nessuno si abbrucia a bello studio…”.

Raggiunto il mondo civilizzato, ai tempi di Leopardi la moderna Inghilterra, ai due viene raccontato di un suicidio-omicidio avvenuto per arma da fuoco nella città simbolo della civiltà industriale: un gentiluomo londinese ha ucciso i suoi figli e se medesimo: l’evento toglie ogni illusione a Prometeo sulla perfezione umana e quindi paga la sua scommessa a Momo.

La riflessione che qui si impone, al di là del tema principale della perfezione umana, è quello dell’uso che l’uomo fa delle scoperte e delle invenzioni: nei tre episodi (selvaggio, vedova, gentiluomo) abbiamo una progressione sociale e tecnica nell’abuso dell’invenzione del fuoco (pignatta, pira, pistola): ebbene se Prometeo biasima i primi due episodi, li comprende, sia pure di fronte alla loro irrazionalità e crudezza, per le rispettive motivazioni, cioè il cibarsi e il lutto, rimane, però, del tutto sconcertato di fronte all’azione completamente snaturata dell’uomo moderno che uccide sé e i propri figli per noia.

Tra gli effetti della civilizzazione ci sono, oltre alla noia, il livellamento di tutti gli individui fino a formarne una massa; pertanto l’invenzione dell’arma da fuoco, rendendo tutti abili ad usarla, ha uniformato il mondo, spegnendo così l’entusiasmo, l’emulazione e l’eroismo (cfr.: Zibaldone, 659-660). Ne ricaviamo anche la conclusione ulteriore e più generale che il raffinamento tecnologico derivante dalle invenzioni ha reso gli uomini più pericolosi, perché possono abusarne facilmente con effetti ancor più devastanti.

 

Uomo e Natura

Nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo[7 Leopardi immagina un mondo successivo alla scomparsa del genere umano, dove, di conseguenza vengono meno le convenzioni (es.: le gazzette e i lunari) tipiche degli uomini.

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[7] Presente in Operette Morali, cit., pag. 66 ss.

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Alla domanda dello gnomo sulla causa dell’estinzione degli uomini “ma come sono andati a mancare quei monelli?”, il folletto ne elenca le cause: “Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male”.

Mentre nel Prometeo Leopardi evidenziava come la civilizzazione generata dallo sfrenato perfezionamento tecnologico portasse l’uomo a commettere le peggiori efferatezze nei confronti dei suoi simili, in quest’altro Dialogo, allude in parallelo all’impatto minaccioso che ha l’uomo nei confronti dell’ambiente naturale.

Leopardi anticipa un pensare che oggi possiamo definire ecologico: l’uomo non deve esagerare a sfruttare la terra, come fa forse per istinto: “Lo stesso accadrebbe a me se non fossi nato gnomo. Ora io saprei volentieri quel che direbbero gli uomini della loro presunzione, per la quale, tra l’altre cose che facevano a questo e a quello, s’inabissavano le mille braccia sotterra e ci rapivano per forza la roba nostra, dicendo che ella si apparteneva al genere umano, e che la natura gliel’aveva nascosta e sepolta laggiù per modo di burla, volendo provare se la troverebbero e la potrebbero cavar fuori”.

Leopardi ironizza di nuovo sulla pretesa onnipotenza degli uomini nei confronti della natura essendo contrario all’iperplasia di uno sviluppo tecnologico che non considera le risorse reali: “L’uomo isolato crederebbe per natura, almeno confusamente, che il mondo fosse fatto per lui solo. E intanto crede che sia fatto per la sua specie intera, in quanto la conosce bene, e vive in mezzo a lei, e ragiona facilmente e pianamente sui dati che la società e le cognizioni comuni gli porgono. Ma non potendo ugualmente vivere nella società di tutti gli altri esseri, la sua ragione si ferma qui, e senza riflessioni che non possono esser comuni a molti, non arriva a conoscere che il mondo è fatto per tutti gli esseri che lo compongono[8].

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[8] Pensiero 1305, in Zibaldone, op. cit.

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Infine gli uomini pensano di possedere delle facoltà illimitate tali da svelare tutti i misteri della natura mentre la stessa non si cura di loro.

La natura, invece, “fanciullo invitto” (Palinodia, v. 170), disfa a suo piacimento e capriccio ogni sua creazione e di conseguenza quel che l’uomo con enorme sforzo cerca di costruire.

 

La solitudine dell’uomo moderno – la globalizzazione

L’uomo, allontanatosi dalla natura a causa della civilizzazione, vive all’interno di una società, paradossalmente isolato dai suoi simili, proprio per il livellamento dei rapporti sociali e della loro massificazione; tale processo ha come effetto l’individualismo e l’egoismo.

Facendo riferimento alla storia passata, Leopardi paragona gli antichi ai moderni, cioè le piccole e ristrette comunità statali con la società uniformata che si stava formando, dove oramai cominciavano a non esserci più differenze rilevanti tra una nazione e l’altra, a causa degli effetti della omologazione da parte del progresso e dell’incivilimento, così che i paesi potevano già considerarsi simili[9].

In maniera più ampia Leopardi spiega: “L’incamminamento espresso della società ad un senso tutto e diametralmente opposto al sopraddetto, cioè ad allargarsi tanto anzi sciogliersi per una parte, ch’è la più importante, quanto per l’altra si stringe. Cosa che è sempre accaduta dal principio della società in poi, in proporzione del maggiore stringimento di essa.”  Oggi “Non solo non c’è più amor patrio, ma neanche patria. Anzi neppur famiglia. L’uomo, in quanto allo scopo, è tornato alla solitudine primitiva. L’individuo solo, forma tutta la sua società. Perché trovandosi in gravissimo conflitto gl’interessi e le passioni, a causa della strettezza e vicinanza, svanisce l’utile della società in massima parte; resta il danno, cioè il detto conflitto, nel quale l’uno individuo, e gl’interessi suoi, nocciono a quelli dell’altro, e non essendo possibile che l’uomo sacrifichi intieramente e perpetuamente se stesso ad altrui, (cosa che ora si richiederebbe per conservare la società) e prevalendo naturalmente l’amor proprio, questo si converte in egoismo, e l’odio verso gli altri, figlio

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[9] Pensiero 1305, in Zibaldone, op. cit.

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naturale dell’amor proprio diventa nella gran copia di occasioni che ha, più intenso, e più attivo. (…) Si è perduto in gran parte e si va sempre perdendo lo scopo della società, ch’è il bene comune, e ciò per la stessa ragione per cui se n’è perduto il mezzo, cioè la cospirazione degl’individui al detto fine[10].

                                                                                                                                     

La speranza

Leopardi si rende conto che la speranza, come delineata dai sostenitori del Progresso, non va oltre il concetto della felicità materiale ed esteriore (pubblica) e si confonde con i bisogni primari dell’uomo cui provvedono largamente i “mercati e le officine” (Palinodia, v. 254): si rende conto che è una speranza che si basa esclusivamente sulla crescita del progresso sociale e tecnico, motivo caro ai Liberali, e di questa fa una lode sarcastica alla fine della Palinodia, riferendosi alla futura età dell’oro promessa dal Progresso.

Ma il progresso non risolve, invece, il problema della infelicità umana, della noia, della tristezza: e di ciò cominciarono ad accorgersi, passata la metà del secolo, in pieno positivismo, i filosofi tedeschi e successivamente gli studiosi di psicologia.

 

Conclusione

La concezione leopardiana della vita e dell’esistenza è tradizionalmente considerata pessimista: ma a ben vedere, dalla lettura delle sue opere, si può cogliere invece un realistico invito agli uomini a superare le illusioni e il loro “fetido orgoglio” (La Ginestra, v. 102), accettando con dignità la propria finitezza e riconoscendo la caducità della condizione umana, il destino che la natura ha loro riservato.

Nella Ginestra, che può considerarsi il suo testamento poetico, Leopardi prende a modello l’umile pianta del Vesuvio, vero esempio di umiltà ma anche di forza di fronte alla natura, non vile come chi

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[10] Pensieri 876-877, in Zibaldone, op. cit.


chiede pietà all’oppressore, e non arrogante come l’uomo, il cui capo è “eretto / con forsennato orgoglio inver le stelle” (v. 309-310).

La condivisione della morte e della finitezza umana è un invito a formare quella “social catena“ (v. 149), quella solidarietà tra gli uomini, che può essere veramente considerato un messaggio per la pace del mondo: invece di combattersi e sopraffarsi a vicenda, per egoismo e avidità, gli uomini devono unire le loro forze contro la natura che li ha fatti nascere deboli e senza il loro volere, al mondo.

Ritengo che quest’ultimo sia un messaggio troppo innovativo per essere recepito nelle società moderne.

 

Alessandra Primavera

 

nota al testo

 

Alessandra Primavera nasce a Roma il 1° giugno 1996.

Frequenta la scuola media ad indirizzo musicale, studiando violino.

Si iscrive al Liceo classico “Plauto” di Roma nel 2010.

L’avvicinamento al Poeta e alle sue opere nasce dopo una visita al Palazzo Leopardi nel 2012, grazie anche alla passione della madre Fedora per l’opera del grande Recanatese.

Dal 2012 frequenta inoltre i seminari organizzati dal “Laboratorio Leopardi” presso l’Università “La Sapienza” di Roma.

Nel maggio 2015, su segnalazione del prof. Franco D’Intino, direttore del Laboratorio, partecipa ad un concorso nazionale organizzato dall’Associazione Culturale “Parola all’Eremo” di Vico Equense (Na), inviando un proprio lavoro, intitolato “Giacomo Leopardi un genio premonitore”, con il quale ottiene il primo premio della categoria “Iunior”.

Conseguita nello stesso anno la maturità classica, si iscrive al corso di scienze archeologiche presso l’Università di Roma “La Sapienza”.

 

 

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