Su AL QANTARAH-BRIDGE (Un ponte lungo tremila anni fra Scilla e Cariddi) di Fausta Genziana Le Piane e Tommaso M. Patti; Nicola Calabria Editore, 2007

 

 

Inizierò il mio scritto riconoscendo che la lettura di questo libro, pur impegnativa nel bel mezzo della calura ferragostana, mi ha via via sempre più coinvolto, spingendomi a riflettere. Soltanto pochi giorni sono infatti trascorsi dal primo anniversario del tragico crollo del ponte Morandi a Genova, ragion per cui l’insistenza degli autori circa la profonda valenza simbolica che qualsiasi ponte riveste da sempre nella coesistenza di uomini e popoli mi è sembrata sacrosanta, volendo tacere dell’aspetto strettamente funzionale. Eppure le cose stanno come ben sappiamo, nel caso dell’auspicato e osteggiato ponte sullo Stretto: donde il libro in oggetto, di natura interdisciplinare (per i profili storico-geografici e letterari a vasto raggio, informazioni scientifiche, racconti originali e molto altro); scritto a due mani da una poetessa calabrese e un ingegnere siciliano istintivamente al riparo, direi, dagli strali tuttora attuali di Charles P. Snow. AL QANTARAH-BRIDGE è il titolo del volume dei nostri autori, tautologia arabo-inglese da cui Le Piane e Patti prendono le mosse per far sedimentare nella coscienza del lettore quelle che la povertà espressiva d’oggi spingerebbe a chiamare le ragioni del sì; laddove, in effetti, affrancati da qualsivoglia manicheismo, ecco i nostri autori lavorare d’intarsio fra storia e mito, dati scientifici e invenzione letteraria, spinti da una passione civile (non sterilmente visionaria!) mai scadente in meridionalismo stantio. Impossibile a questo punto non ripensare, leggendo questo libro, alla fondamentale lezione gramsciana dell’incompiuto saggio ALCUNI TEMI DELLA QUESTIONE MERIDIONALE (prima pubblicazione a Parigi nel 1930); saggio alla base degli stessi QUADERNI DEL CARCERE e in cui viene espressa la consapevolezza che la questione meridionale non può essere risolta con rimedi specifici in quanto caso a sé: rappresentando essa piuttosto un aspetto della questione nazionale, e quindi da affrontare attraverso l’assunzione di una politica generale del Paese. Sicché, tornando al volume in oggetto, Le Piane e Patti, rifiutando lo stereotipo della cattedrale nel deserto a proposito del ponte sullo Stretto, ne auspicano con forza la costruzione, per unire veramente terre difficili ma di antica storia e bellezza come Calabria e Sicilia al nostro Paese: nei termini di una sfida tecnologica e legalitaria in grado di edificare un’opera bella (perché no?), capace finanche di supportare l’Alta Velocità ferroviaria (senza nascondersi le indubbie difficoltà di impatto ambientale strettamente intrecciate con gli appetiti criminali). La stratificata suggestione del lavoro dei nostri autori, pubblicato nel 2007 e quindi alla vigilia di una crisi economica su scala globale con relativo acuirsi del declino italiano negli anni a seguire, ha davvero scosso la mia immaginazione; talché mi sono trovato a ripensare a Francesco Petrarca, per il sentimento che nutro della poesia quale intelligenza concreta della realtà. Petrarca, infatti, nei suoi versi rivolti all’Italia, ha ubbidito come sappiamo a una esigenza di classica personificazione di quest’ultima. Si pensi all’incipit della sua sublime canzone: “Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno/ a le piaghe mortali/ che nel bel corpo tuo sì spesse veggio”. Il poeta ci rammenta dunque le ferite e le offese che lacerano un corpo, quello dell’Italia, sentito nella sua integrità inviolabile, come purtroppo non riusciamo a raffigurarcelo noi tanto tempo dopo per ragioni storiche profonde, è risaputo; ma senza neppure quello sforzo serio e durevole del nostro paese per tentare di colmare il divario fra Milano e Palermo, tanto per capirci. Non posso però concludere il presente scritto senza accennare un attimo alla incisiva bellezza dei succitati racconti originali all’interno di AL QANTARAH-BRIDGE, volendomi riferire soprattutto a due di essi: il primo, Gara di magia, ricco d’inesausta fantasia e convincente spessore antropologico (al punto di avermi riportato alla mente IL MONDO MAGICO, classico saggio di Ernesto de Martino); il secondo, Spabo lo sbruffone, esemplare nel delineare plasticamente la rassegnazione contadina nell’estremo Sud a cavallo fra il sedicesimo e diciassettesimo secolo (quasi una sorta di controcanto corale all’arroganza dei potenti esemplato sulla tragedia classica). Infine, fra i tanti profili letterari di epoche diverse che fanno la ricchezza del volume, come dimenticare quello dedicato a Leonardo Sciascia in merito alla “famiglia…unico istituto veramente vivo nella coscienza del siciliano…che consente più breve il passo verso la vittoriosa solitudine” così come si legge nel GIORNO DELLA CIVETTA? Non mi rimane che ringraziare sentitamente Fausta Genziana Le Piane e Tommaso Maria Patti per questo libro attualissimo, che bene fa alla mente e al cuore di chi sente il mar Mediterraneo come “lago di pace”.

 

 

Andrea Mariotti

 

 

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