PREFAZIONE DI ANNAMARIA VANALESTI ALLA SILLOGE “LA TEMPRA DELL’AUTUNNO”

Dopo la presentazione della mia silloge avvenuta ieri 25 settembre a Roma all’interno della rassegna FARNESINA BOOK FEST, con vivo piacere propongo alla lettura la prefazione al libro della studiosa e saggista Anna Maria Vanalesti:

 

 

 

 

Un poeta attraversa il mondo e il tempo, in modo del tutto diverso rispetto agli altri individui, perché segue un tracciato unico che solo la lente straordinaria della sua poesia può fargli rilevare e come è unico il suo cammino, così è unico e originale il suo rapporto con le cose e con la natura.

Ci convince di questo la nuova silloge di Andrea Mariotti, La tempra dell’autunno, che subito ci immette in un percorso singolare, fatto di momenti di contemplazione e di riflessione, in una condizione di perenne incanto e di godimento della solitudine, quasi stato di grazia necessario per il canto poetico.

Schivo e riservato nel manifestare i suoi sentimenti, Mariotti trova una misura cantabile, nei versi, adoperando la metrica con una sobrietà che perviene al lettore in forma di chiarezza solare e gli comunica sensazioni, suggestioni ed emozioni.

Abbiamo di fronte un escursionista appassionato della montagna, sempre alla ricerca di valichi e valli che lo conducano verso le cime amate, anche solo per guardare il panorama e rimanere sospeso tra terra e cielo, rapito dall’immensità e dal silenzio.

Ed è allora che la parola poetica diviene lo strumento primario per svelare i segreti e il mistero dell’universo, configurandosi come ineguagliabile chiave d’accesso per andare al di là della banale realtà quotidiana.

La prima cosa che colpisce in questa raccolta sono gli spazi, dilatati e ampi, mai astratti, ben definiti e legati a precisi territori, di città o regioni: dinnanzi ai nostri occhi si stendono vallate, si ergono monti, si spalancano orizzonti e si effonde ovunque una luce intensa che non è semplicemente luce del giorno e delle sue ore ma luce spirituale, che emana dall’interiorità del poeta.

Già nella poesia che fa da vestibolo alla silloge, Fondovalle, si può cogliere lo stato d’animo dell’uomo che ammira “le cime candide d’Abruzzo”, sentendosi quasi purificato “dai venti tiepidi di cresta”, che scacciano “il tossico dal sangue” e avverte quindi la forte necessità di immergersi nella natura per un lavacro dell’anima intossicata dalla vita e dalla società. Questo muoversi tra la purezza sublime del paesaggio e le tragedie dolorose dell’esistenza sarà la costante di tutto il libro, nel tentativo continuo di compiere una ricerca del bene e ridare una definizione del mondo. Assistiamo ad un viaggio lento, segnato da incontri, da ricordi, da memorie ma anche dall’alternarsi delle stagioni, tra le quali Mariotti sembra prediligere l’autunno.

Le tappe, o meglio le fasi del viaggio, sono cadenzate dalle quattro sezioni della silloge (Poesie ritrovate, Sciolti, Apollo e Dioniso, Intrecci) attraverso le quali si articola un itinerario di rilettura della realtà e di analisi su se stesso, che nella poesia di Mariotti, coincidono sempre.

Nella prima sezione ci appare il viaggiatore “insonne” (per dirla con Penna), che si sposta in luoghi non soltanto fisici ma della mente, attento alla stagione, al vento, elemento assai frequente nella poesia di questo libro, alle memorie di un tempo passato (come il ricordo di una visita fatta ad uno caro zio malato). Riconosciamo in lui un pellegrino di stampo quasi proustiano che, comunque proceda, a piedi o in treno, o in taxi, torna indietro per capire meglio i momenti vissuti, forse dimenticati, che invece egli recupera per mezzo di poesie ora ritrovate. In tale recupero, però, non scorgiamo mai atteggiamenti malinconici o patetici rimpianti, perché un filo di ironia guida l’esplorazione del passato e conduce il poeta ad una liberazione da ogni senso di colpa, ristabilendo una linea di conciliazione tra ieri e oggi. Si tratta di un’ironia che a volte ci ricorda Caproni, pronto ad esorcizzare i drammi dell’esistenza con qualche battuta, senza nulla togliere alla serietà e gravità di certi istanti.

Si consideri per esempio l’incipit di Treno per Cesano, così isolato nella sua descrizione di maestosa bellezza (Dell’umana sofferenza fortezza/ che impettita stai sulla collina) e si noti poi il contrasto con il ricordo sorridente di un incontro con lo zio devoto a Bacco e fumatore.

E ancora si osservi nello Scirocco d’Assisi lo stacco tra l’inizio ritmico e austero (Forte soffia carico di bile/nel giorno di Natale questo/ vento bastardo…) e la conclusione ironica e sarcastica, allusiva al prezzo del taxi (come punge/ nel di festivo Pietro di Bernardone). Segue la seconda sezione tutta giocata sulla perfezione degli endecasillabi sciolti, che il poeta costruisce con grande abilità, essendo un profondo conoscitore della metrica e un infaticabile lettore dei classici della nostra tradizione letteraria. Apre la serie l’imponente Latemar, contemplato dal viandante che ne coglie il rossore di suprema bellezza, mentre ne percorre l’Alta Via, quasi in una metafora della vita e del suo cammino, per raggiungere una conca di mistico e detritico silenzio, simile ad una scenografia lunare.

Tutto in questi sciolti è occasionale ed estemporaneo, eppure ogni motivo si dipana secondo un tema unitario e continuo, che ruota intorno all’itinerario del poeta e alla sua formazione umana, perenne work in progress. Così è nella lirica Futuro, così in Gianicolo, in cui la luce fulgida e irreale che inonda i versi, è la condizione ideale per quello stato d’animo che guida i due visitatori al sepolcro del Tasso, nel ricordo dell’emozione intensa provata anche dal Leopardi, così avviene in tutte le altre poesie.

Non manca inoltre qualche elemento simbolico, di cui il poeta si avvale per disegnare il suo percorso e costruirlo passo per passo; uno di questi emblemi è lo Zaino (titolo anche di una poesia), che ci ricorda molto la bisaccia con cui Rabindranath Tagore attraversava la sua giungla indiana, una bisaccia metaforica, piena di risorse spirituali e mentali per affrontare la vita.

La sorpresa per noi è che nel verde zaino d’escursionista, insieme al quale l’autore dice di aver palpitato dinnanzi a vette sublimi, è nascosta una rosa destinata ad una donna amata, le cui fattezze sono accennate con accenti delicati e teneri, d’un lieve erotismo pudico. Questa figura femminile appare in alcune composizioni, vaga e indeterminata ma fortemente sentita: a volte è solo compagna di strada del poeta (come in Gianicolo) e se ne avverte la presenza da un improvviso plurale che scivola nei versi (i nostri occhi), o dalla allusione ad un tu ( poi di nuovo all’aperto tu ed io) che si affianca all’io in una condivisione di sentimenti; altre volte è la donna dal cuore ardente che gli vuole bene e riesce a fargli compiere persino scelte di luoghi meno cari, il mare invece delle montagna, (in Estate), altre volte ancora è solo un’amica cara che intravediamo durante una conversazione su Cracovia, Gerusalemme e Montale (nella lirica appunto intitolata Montale), in un balenare di pochi tratti essenziali (si levano le fiamme dal tuo volto).

Certo non è la donna di montaliana memoria che ci viene in mente, perché questa non ha la stessa funzione salvifica di quella, ma pur nelle rare occasioni in cui la incontriamo, sentiamo che si è aperta una breccia nel cuore del poeta e l’uomo non è più un solitario viandante.

L’attenzione di Mariotti, però, oltre che dalle vette, dai cammini, dai pellegrinaggi, con o senza la fedele compagna, è attratta anche dai problemi sociali, dalla cattiveria che ci circonda, dalla stupidità di quella che egli chiama ormai l’umanità perduta: l’incendio doloso della pineta di Castelfusano, il crollo del ponte Morandi di Genova, la folla dei giovani dalle teste chine sui tablet e sugli smartphone, come nuovi oranti, in una ineludibile dipendenza tossica da questi meccanismi, in una incapacità assoluta di comunicare col prossimo se non attraverso chat, mail e le faccine di emoticon, nella ormai incipiente afasia del linguaggio. Di fronte a questo pasticcio d’uomo privo di orizzonti, al poeta non resta che ritornare ai suoi temi prediletti: la natura, i monti, i colori delle stagioni. E a proposito di ciò, ci si offre in tutta la sua armoniosa drammaticità, la lirica La tempra dell’autunno, da cui il libro prende il titolo:

 

Tripudio di colori offrite in dono

o cittadini alberi, voi funesti

l’ottobre scorso agli uomini e alle cose;

mentre i vostri fratelli risonanti

venivano mozzati dal ciclone

nelle foreste delle Dolomiti.

Ribolle ancora il mar Mediterraneo

ignorando la tempra dell’autunno

…………………………………….

 

Sull’umanità si è scatenata la vendetta della natura, nel prevalere della tempra dell’autunno. Perché il poeta la definisce così? Che cos’è questa tempra dell’autunno, che pure è una stagione amata, che fa pensare all’età di mezzo dell’uomo, quando le furie si dovrebbero placare e lo spirito dovrebbe prepararsi ad accogliere con serenità l’inverno? “Tempra” è termine che riferito ad un uomo significa il complesso delle sue qualità fisiche e psichiche, con riferimento in particolare ad una costituzione salda e forte, ma vuol dire anche indole, temperamento. Si pensi ai versi del Petrarca in Solo e pensoso: sì ch’io mi credo omai che monti e piagge/ e fiumi e selve sappian di che tempre/ sia la mia vita ch’è celata altrui.

Riferito ad una stagione che cosa può voler dire? Allude certamente alle caratteristiche di clima, di aspetti, di caratteri e di forza della natura che l’autunno implica. Trasferito in termine poetici qui il vocabolo assume una valenza metaforica, che diviene uno specimen per l’uomo, giunto tranquillo e finalmente intero, ad una precisa tappa della sua esistenza, l’età matura dei resoconti, delle decisioni, dell’ordine nelle proprie stanze, per essere finalmente se stessi e capire il proprio ruolo. Questo è il messaggio che La tempra dell’autunno trasmette, a chi lo vuole e lo sa cogliere.

La penultima sezione del libro, Apollo e Dioniso, già dal titolo annuncia un colpo d’ala, che a suon di rime incrociate, tipiche delle quartine, con non poche sfumature ironiche, oppone l’apollineo al dionisiaco, in una serie di contrastanti battute, che scaturiscono da riflessioni e considerazioni, su vari aspetti e momenti dell’esistenza.

Ad un cielo color cobalto può opporsi un cuore in anemia, le due anime dell’arte si contrappongono e si fondono, la poesia tenta di ricomporre l’unità tra il caos e l’ordine, tra l’irrazionale e il razionale e conduce alla gioia del divenire, all’interno della quale si trova anche il piacere di distruggere. L’efficacia di queste quartine sta soprattutto nella loro brevità e nell’aspirazione costante al raggiungimento di un’armonia, non solo compositiva e metrica, bensì spirituale e naturale.

Chiude la silloge, la sezione Intrecci nella quale si intrecciano situazioni e occasioni con luoghi e tempi precisi. Le occasioni (ancora una volta pensiamo a Montale) sono date da visite che il nostro viaggiatore realizza in determinati luoghi, per ammirare delle notissime opere d’arte e che immediatamente creano una situazione emotiva intensa: c’è Napoli, c’è Firenze, c’è Roma e c’è l’amata montagna. Il poeta si sofferma reverente dinnanzi alla scultura delle Tre Grazie di Canova, estatico e in religioso silenzio davanti al manoscritto autografo dell’Infinito di Leopardi, stupefatto e rapito nella chiesa di Sant’Isidoro a Roma contemplando le Virtù del Bernini, perfezione inimitabile in contrasto col grande degrado della città al di fuori di quel luogo sacrale. Sullo stesso piano di tali capolavori artistici, è posto l’abruzzese Monte Amaro e il parco nazionale circostante, la cui sublime quiete invade l’animo dell’uomo. Infine a Firenze è la sosta conclusiva nel cimitero di San Felice ad Ema presso la tomba di Montale: qui avvertiamo lo stupore e la commozione di Mariotti per la modestia e l’umiltà di quella sepoltura, nonché la condivisione con il rifiuto di ogni retorica che l’amato poeta, premio Nobel, ha sempre fatto durante la sua vita.

Due poesie dedicate ai tempi, a due mesi, settembre e ottobre chiudono definitivamente la raccolta: Settembre e Sonetto ottobrino.

Il poeta è ormai pacificato con se stesso, sa godere dei colori settembrini, sbiaditi forse, ma adatti a riabituare l’anima ad una luce più avara dopo l’iride di agosto. Il sonetto di ottobre è invece una dichiarazione di amore alla compagna, un’ode al suo sorriso e alla pace che ne deriva, una constatazione di come lei finalmente sia riuscita a placare i fantasmi di lui. Il palpito autunnale che conclude la lirica ristabilisce il circuito di tutta la silloge, intorno ad un viaggio iniziato come ricerca del bello e della purezza, per giungere ad una meta di serenità e di pace, grazie all’utilizzo di un linguaggio poetico la cui nota distintiva è la musicalità. Non poteva essere diversamente per un poeta come Mariotti che ha in Mozart il suo nume tutelare.

 

 

 

ANNA MARIA VANALESTI

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