RECENSIONE DI MARZIA SPINELLI ALLA SILLOGE “LA TEMPRA DELL’AUTUNNO”

Andrea Mariotti LA TEMPRA DELL’AUTUNNO Bertoni editore, 2020

 

Il principio fondante di questo nuovo libro di Andrea Mariotti è il rigore metrico, unito alla coerenza linguistico espressiva che dona coerenza ed evidente compattezza.

Ma tale rigore metrico, assai raro di questi tempi – e pertanto cifra originale del libro – non adombra l’ispirazione poetica e il suo esito, bensì l’accompagna e la sostiene, dandole ulteriormente se vogliamo quella tempra così polisemantica del titolo. Il termine credo non si riferisca soltanto alla stagione autunnale, metafora del tempo maturo dell’uomo, o al carattere solido dell’uomo giunto a quella stagione matura, ma credo si possa riferire anche al tempo maturo e saldo della poesia, nel caso specifico frutto di un indubitabile “labor limae”.

C’è poi il linguaggio: qui si potrebbe incorrere in un rischio di cui credo l’Autore sia ben consapevole: linguaggio aulico che potrebbe essere interpretato non come elemento di valore, ma come “eccessivo” tributo alla tradizione, (vedi su tutto l’epigrafe in omaggio a Foscolo Sdegno il verso che suona e che non crea) dando una superficiale impressione di linguaggio “vetusto”. L’Autore stesso, lo dichiara ironicamente parlando di aulica bottiglia

Ma l’occhio di lettore attento e serio non potrà non cogliere il gioco delle sorprese, degli spiazzamenti, dei guizzi linguistici e perché no anche gli sperimentalismi che si presentano man mano nelle varie poesie, direi in tutte. Insomma, la struttura metrica e tutto l’impianto classico del libro, maneggiati con grande cura e sapienza, vengono poi contaminati, in senso buono s’intende, dall’inserimento di termini, immagini e fraseggio poetico segnati dallo stigma della modernità.

In concreto, si prenda ad esempio Fondovalle, la prima poesia: i primi versi descrivono il paesaggio, le ritrovate e amate cime d’Abruzzo, tutto apparentemente molto tradizionale, molto pacato; ma poi quel tossico dal sangue scompiglia quella pacatezza, anticipa quel che poi accade nel finale: come se nel giardino (o nella valle montana in tal caso) dell’Eden si fosse abbattuto un ciclone, la bellezza e l’armonia di quelle cime è sparita, sparita la tenerezza delle primule, resta il suicidio del collega e il modo orribile di parlarne in ufficio! Resta l’ agghiacciante realtà di quotidiana miseria e indifferenza, di assenza di pietà.

Ma ancora un esempio:

All’inverno mancato: l’invocazione all’inverno con l’interiezione di dolore anche aspra “ohi, verno… al secondo verso (e ce ne sono molte nel libro di invocazioni dolenti e/o aspre) seguita da … ma l’onta /ti si ascrive dei Giorni della Merla/con primaverile vampa…

È un verso classico, tradizionale, che usa un linguaggio alto

poi arriva un bel salto:

noi, per le polveri sottili, a salmodiare

intanto ad petendam pluviam giocando…

A parte l’assonanza felice di intanto e giocando, ma soprattutto quelle polveri sottili mescolate all’invocazione alla pioggia, nel richiamo latino, liturgia rituale nella migliore tradizione agreste, che rafforza l’immagine dell’antitesi tra la città e la campagna è notevole. E poi il gran finale, inaspettato e provocatorio: … ché l’emergenza è l’anima del rock!

Sempre seguendo il corso e il percorso umano e stilistico del libro che si snoda tra endecasillabi, sciolti e in rima, e quartine aspre come si conviene, segnalerei Futuro per il verso finale così perfetto Vivere voglio nel silenzio d’oro/dei libri vuoto il mondo d’ogni senso. Anche qui abilmente reso il contrasto tra il Futuro del titolo e il passato dei libri belli, ingialliti… a cui tornare e in cui trovare rifugio e calore dal sentore d’autunno

Anche il Treno per Cesano è un momento alto nel ricordo e nella descrizione dell’amato zio devoto a Bacco e fumatore, sembra quasi di vederlo mentre racconta barzellette condite con le omeriche risate che lacrime/ strappavano al nipote ombroso! …e lacrime quasi strappano i tre versi finali: e soprattutto ripenso al tuo grande/ cuore in quel lontano giorno in cui/ morì mio padre: tutti a pranzo da te.

De profundis in memoria della tragica vicenda del Morandi è una poesia molto ben riuscita, considerando l’indubbia difficoltà di trattare un tema del genere, con il rischio sempre dietro l’angolo di retorica e banalità; la poesia emoziona senza cadere nel patetico e il verso finale precipitati in un baratro tutti consente felicemente il passaggio dall’io al noi, all’universalità tanto necessaria, che solo la vera poesia è capace di rendere.

Gianicolo ed Estate sono un bel binomio di poesie d’amore che addolciscono l’animo: in particolare la prima, dove l’amore è rappresentato in un contesto più ampio, di delicata meditazione su quella luce inattesa e irreale di domenica e si manifesta nella intensa immagine finale del galleggiare uniti all’uscita della chiesa dove riposa il Tasso, l’umile marmo che solo parlò /al cuore di Leopardi raggelato, dove l’ombra della morte è per un attimo accantonata se non annullata dalla festa dell’amore – scelta felicissima del termine che rende pienamente la gioia del sentimento – di cui però non si dimentica la caducità.

Così anche Lo zaino, oggetto che nasconde e si fa rosa (!) fiore massimo d’amore, ma al tempo stesso diviene alter ego del poeta, compagno fedele di comune cammino, più lustri lui ed io palpitato abbiamo/ dinanzi a vette sublimi , meno/ belle giura, dei seni tuoi alla porta; una poesia breve, tutta in movimento, il cui veicolo è proprio quello zaino onnipresente, contenitore e custode d’amore e altro, fino alla chiusa della similitudine tra le vette e i seni che circolarmente ricollega i due temi della poesia, la passione d’amore e quella per la montagna. Ancora dalla sezione Sciolti vanno menzionate Latemar e Color del grano dove protagonista è il silenzio: nella prima l’aver percorso l’Alta Via…, quella conca/ di mistico e detritico silenzio è una sorta di onirica rinascita dove leonina forza mi hai trasfuso…/io di colpo atterrato sulla luna; similmente nella seconda il tono sarcastico, tra le cornacchie malefiche e il piccolo gheppio, si inserisce in una atmosfera lieve, come di sogno per evidenziare nei due versi finali l’impossibilità di dire il silenzio, tuttavia liberatorio dal caos del mondo: Come dirti, lettore, dell’astrale/silenzio che mi regna ancora in cuore?

Poi arrivano le quartine. E qui si entra in un campo più complesso, pur nella chiarezza del dettato, perché è la parte più profonda e intima del libro, direi il suo cuore. Tra queste incisive, allusive e profetiche metafore, un po’ aspre e un po’ dolenti, si nasconde forse l’autoritratto, o più di uno, del Poeta e la sua più intima verità; in particolare l’ XI si rivela una dichiarazione di poetica: ognora avverto nel silenzio fondo/un colpo d’ala che mi fa giocondo:/estraneo io a futile vetrina/lavoro i versi nella mia officina; o la XII, ancora più bella a mio modesto avviso: quand’è che arriverà quel calmo amore/non debole di gambe e ambasciatore/di una corrispondenza duratura?/ morire soli adesso fa paura.

Anche il Tempo fa la sua parte, molto presente e menzionato tramite quel ricorrente erano decenninon più vederti da un decennio… a lungo ti ho ignorato per decenni, non rivederti da un decennioera più di un decennio… come a voler evidenziarne la valenza, non soltanto personale, riferita a un decennio ricco di avvenimenti anche tragici. Più esplicito e specifico il riferimento al Tempo ricorre anche nel rievocare stagioni e mesi, in particolare nella splendida SETTEMBRE, mese di passaggio dall’estate all’autunno, con la sua luce avara a noi fraterno/ come la morte. O nel disincanto lieve e molto poetico della quartina VII: al Tempo piace andare a tavoletta… per la discesa cieca una civetta/ leva il suo canto che non desta orrore.

Infine, il sonetto dedicato ad ottobre e non solo, che oltre ad essere preciso e godibilissimo nella scelta dei termini e delle rime, non poteva trovare migliore collocazione se non come esclusivo finale, poiché chiude il cerchio alla Tempra del titolo che volente o no, ha palpito dolce, a conferma della compattezza e dell’uniformità di cui accennato in premessa e della Poesia, che è anche gioco di incastri e rimandi mai casuali, affinché tutto torni.

 

Marzia Spinelli

 

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