A QUARANTACINQUE ANNI DALLA MORTE DI PIER PAOLO PASOLINI

 

Nell’ottobre scorso mi sono recato ancora un volta a visitare la torre di Chia nel viterbese, che Pier Paolo Pasolini riuscì ad acquistare nel 1970 e che fu suo rifugio fino alla tragica morte nel 1975. Già. Siamo a quarantacinque anni esatti dalla scomparsa del grande scrittore e regista senza che il putrido teatro di menzogne, reticenze, gravi omissioni sul suo massacro sia stato bonificato una volta per tutte; dimodoché ci troviamo tuttora privi di verità acclarata sui fatti di quella notte del 2 novembre del 1975 (verità cui avremmo diritto come cittadini di uno stato democratico, non dimentichiamolo; rammentando bene il corpo straziato del poeta ad opera di un diciassettenne infuriato e praticamente senza un graffio, a parte mani ignote…sic!). Per quanto mi riguarda, da sempre ho avvertito la peculiarità del mio avvicinarmi all’opera di Pasolini: un’opera che scotta, che brucia pelle e anima di chiunque faccia i conti con essa in modo aperto; giacché tale opera è davvero in tante sue parti il testamento profetico e vibrante -nel senso di “gesto” e “testo” indissolubilmente legati- di una coscienza che reclama dignità di sepoltura, vittima com’è stata a partire da subito di una vera e propria damnatio memoriae; nei termini, cioè, di una “comoda” perché squallida morte maturata nell’ambiente dei cosiddetti ragazzi di vita, il 2 novembre del 1975. Da rammentare, in merito, gli atti di vandalismo compiuti nella primavera del 2016 all’Idroscalo di Ostia, dove Pasolini venne ucciso -luogo divenuto nel tempo parco letterario con tanto di significativa stele in memoria del poeta -all’indomani dell’uscita del film di David Grieco La macchinazione; un film scomodo, tutt’altro che estetizzante e piuttosto particolareggiato circa le ragioni della fine dello scrittore attirato in una trappola mortale. Più trascorrono gli anni, in ogni caso, e più mi appare chiaro il fortissimo coraggio di Pasolini nell’essere stato contro, e in modo motivato, rispetto ai luoghi comuni, alle soluzioni di comodo, a mode e movimenti visti con simpatia da altri. Ho riletto al riguardo la recensione pasoliniana del 28 gennaio 1973 alle Città Invisibili di Italo Calvino: con quanta pacata amarezza si prende atto, in essa, del diplomatico silenzio-assenso di Calvino nei confronti della neo-avanguardia letteraria e del Movimento Studentesco rispetto al discredito perdurante sulle spalle del recensore, responsabile invece di un netto rifiuto del Sessantotto (la famosa poesia di Valle Giulia)! sì, perché così in effetti Pasolini si procurò più che mai il vuoto a sinistra, rimanendo con tutte e due i fianchi scoperti, colpevole di aver messo a fuoco l’infantilismo arrogante e dirigista di un movimento giovanile ampiamente strumentalizzato, atto a rafforzare nei fatti quell’entropia borghese ben delineata dallo scrittore dal punto di vista sociologico negli Scritti corsari. Ma torniamo al mio recente ritorno nei luoghi del viterbese cari a Pasolini, cascate di Fosso Castello (dove venne girata la scena del Battesimo relativa al Vangelo secondo Matteo) e torre di Chia. Proprio sotto la torre ho detto (non ero solo) nel silenzio i versi famosi tratti dalle Poesie mondane, incluse nella silloge del 1964 Poesia in forma di rosa: si tratta dei versi che Pasolini aveva affidato nel suo film a parer mio più geniale, ossia La ricotta, al suo alter-ego Orson Welles, nei panni di un regista che si sta misurando con il dramma della Passione…ebbene in essi c’è veramente tutto Pasolini, più che mai attuale (…“Mostruoso è chi è nato/ dalle viscere di una donna morta”), ripensando per esempio ai bruti della notte di Colleferro del settembre scorso responsabili dell’atroce massacro di Willy Monteiro. Pasolini che, come poeta, è stato accusato di essere apocalittico, privo di ironia nonché troppo indulgente coi propri vizi (letterari), come gli scriveva in una lettera spesso citata Franco Fortini nei primi anni Sessanta, alludendo soprattutto a un esagerato descrittivismo di gusto manieristico…ma appunto, sempre Fortini, nella stessa lettera, esprimeva tutta la sua emozione per certi improvvisi “gridi” pasoliniani nell’alveo stesso di quel deprecabile descrittivismo: gridi grazie ai quali emerge tutta la statura del poeta, innegabile nei versi che seguono (intrisi di un realismo allucinatorio, secondo quanto ha ben visto Gianni D’Elia):

 

Io sono una forza del Passato.

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi

abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,

dove sono vissuti i fratelli.

Giro per la Tuscolana come un pazzo,

per l’Appia come un cane senza padrone.

O guardo i crepuscoli, le mattine

su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,

come i primi atti della Dopostoria,

cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,

dall’orlo estremo di qualche età

sepolta. Mostruoso è chi è nato

dalle viscere di una donna morta.

E io, feto adulto, mi aggiro

più moderno di ogni moderno

a cercare fratelli che non sono più.

 

PIER PAOLO PASOLINI, dalle poesie mondane, in Poesia in forma di rosa (1964)

 

 

…e al giudizio lucidissimo di Franco Fortini in conclusione conviene affidarsi, volendo sintetizzare il senso dell’opera dello scrittore “corsaro” e “luterano”, così come lo ricordiamo negli ultimi suoi anni a mezzo dei famosi articoli apparsi sul “Corriere della Sera”: “E’ un’opera che testimonia comunque, come nessun’altra, della spietata mutazione avvenuta nel trentennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale, dal crepuscolo del cristianesimo agrario e dell’umanesimo socialista alla luce artificiale di una società tanto permissiva quanto repressiva”.

 

Andrea Mariotti

 

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